Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post

https://drive.google.com/file/d/1p3GwkiDugGlAKm0ESPZxv_Z2a1o8CicJ/view?usp=drivesdk

venerdì, giugno 25, 2010

NESSUNA VIA D'USCITA? di John Zerzan

L'agricoltura ha posto fine a un lungo periodo di esistenza umana caratterizzata in gran parte dalla libertà dal lavoro, da una notevole autonomia e parità tra i sessi, dall'assenza di sfruttamento della natura e di violenza organizzata. Essa sottrae alla terra più di quanto le restituisce ed è il fondamento della proprietà privata. L'agricoltura recinta, controlla, sfrutta, stabilisce la gerarchia e il risentimento. Chellis Glendinning (1994) ha descritto l'agricoltura come il "trauma originario" che ha devastato la psiche umana, la vita sociale e la biosfera.
Ma l'agricoltura/addomesticamento non è comparsa all'improvviso dal nulla, 10.000 anni orsono. Molto probabilmente è stata il culmine di un'accettazione assai lenta della divisione del lavoro o della specializzazione che, ai tempi dell'Alto Paleolitico circa 40.000 anni fa, ne sono state il presagio. Questo processo sta dietro a ciò che Horkheimer e Adorno hanno definito "ragione strumentale" nella loro Dialettica dell'illuminismo. Sebbene sia ancora propagandata come requisito indispensabile dell'oggettività, la ragione umana non è più neutrale. In un modo o nell'altro si è deformata e questo ha avuto un impatto devastante: la nostra ragione imprigiona la nostra vera umanità mentre distrugge il mondo naturale. Come spiegare altrimenti il fatto che l'attività umana è diventata tanto ostile agli esseri umani, così come a tutte le altre specie terrestri? Qualcosa ci aveva già spinti in una direzione negativa prima che l'agricoltura, la stratificazione in classi, lo Stato e l'industrializzazione istituzionalizzassero la sua erroneità.
Questa malattia della ragione, che interpreta la realtà come un amalgama di strumenti, risorse e mezzi, aggiunge una quantità di dominazione incontrollata e senza precedenti. Come nel caso della tecnologia, che è in ogni istante l'incarnazione della ragione e della materialità, la "neutralità" della ragione si è persa fin dall'inizio. Nel frattempo ci dicono di accettare la nostra condizione. È la "natura umana" ad essere "creativa", recita parte del ritornello.
La divisione del lavoro assegna ad alcuni un potere effettivo, mentre restringe o riduce il campo d'azione di tutti. Questo si può vedere nella produzione artistica così come nell'innovazione tecnologica. Il lavoro caratteristico di singoli individui appare già nella prima arte rupestre, e la specializzazione dei mestieri è un aspetto essenziale dello sviluppo successivo delle società "complesse" (ovvero stratificate). I ruoli specifici hanno facilitato una rottura qualitativa con modelli di società umana antichissimi, in un periodo di tempo notevolmente breve. Dopo due o tre milioni di anni di un'esistenza egualitaria di foraggiamento (raccolta-caccia), in soli 10.000 anni la rapida discesa verso uno stile di vita civilizzato. Da allora, un percorso sempre più veloce di distruzione sociale ed ecologica in ogni ambito dell'esistenza.
È altresì notevole quanto sia stata completa l'esperienza della civilizzazione, fin dalle sue primissime fasi. Domestication of Metal (2000) di Aslihan Yener parla di un'industria complessa alle origini della civiltà, all'inizio dell'Età del Bronzo. Descrive l'organizzazione e la gestione delle miniere di stagno, e la sua fusione, nell'Anatolia dell'8000 A.C. I reperti archeologici dimostrano irrefutabilmente che l'erosione, la deforestazione e l'inquinamento sono state conseguenze molto significanti, allorché le prime civiltà hanno devastato molte zone del Medio Oriente.
Con la civilizzazione, quel che c'è è quello che c'è sempre stato. Il racconto di Russel Hoban del 1980, Ridley Walker, offre uno sguardo che penetra la logica della civilizzazione. Quello che alcuni chiamano Progresso, il narratore lo identifica come Potere:
"Viene da me quindi io lo conosco, il Potere non va via. È stato, è e sarà. Era lì e ti attraeva. Il Potere vuole che tu vada da lui con Potere. Il Potere vuole che avvenga quello che non è mai potuto accadere. Il Potere vuole rimuovere ogni cosa che incontra sul suo cammino."
La natura del progetto della civilizzazione è stata chiara fin dal principio. L'intensificarsi della dominazione, che stava giungendo rapidamente come prodotto dell'agricoltura, è stato stabile e certo. È significativo che i primi monumenti umani coincidano con i primi segni di addomesticamento (Bradley, 1998). La triste linearità della distruzione del mondo naturale da parte della civiltà è stata interrotta solo da sintomi di autodistruzione nella sfera sociale, sotto forma di guerre. E se con Smith (1995) ci ricordiamo che l'addomesticamento è "la creazione di una nuova forma di pianta e di animale", diventa ovvio che la clonazione e l'ingegneria genetica sono tutt'altro che strane aberrazioni dalla norma.
Il contrasto con le migliaia di generazioni di cercatori di cibo (cacciatori-raccoglitori) è sbalorditivo. Non si può mettere in dubbio che questi antenati abbiano posto la condivisione al centro della loro esistenza. In tutta la letteratura antropologica, condivisione ed eguaglianza sono sinonimi di un'organizzazione sociale basata sulla ricerca di cibo e caratterizzata da bande di 50 persone al massimo. In assenza di mediazione o autorità politica, le persone hanno goduto di forti legami espressivi faccia a faccia, in intimità con la natura.
Hewlett e Lamb (2000) hanno esplorato il grado di fiducia e compassione in una banda di Aka, raccoglitori dell'Africa Centrale. La vicinanza fisica ed emotiva tra bambini e adulti Aka, hanno concluso, è strettamente collegata al loro modo benigno di orientarsi verso il mondo. Gli Aka vedono il loro ambiente come generoso e di aiuto, almeno in parte grazie ai legami illimitati esistenti tra loro. Colin Turnbull ha osservato una realtà molto simile tra gli Mbuti in Africa, che salutano la foresta come "Madre Foresta, Padre Foresta".
L'agricoltura è il modello fondante dell'autoritarismo sistematico che è seguito, incluso sicuramente il capitalismo, e dà inizio alla sottomissione della donna. I primissimi insediamenti contadini contenevano "anche più di quattrocento persone" (Mithen e altri, 2000). Sappiamo che l'espansione della popolazione non è stata la causa dell'agricoltura bensì il suo risultato: ciò propone una dinamica che sta alla base del problema della popolazione. Sembra che le società organizzate in scala veramente umana siano cadute vittime delle esigenze dell'addomesticamento. Solo rimuovendo la causa originaria del sostanziale distacco degli uni dagli altri è possibile risolvere il problema della sovrappopolazione mondiale. Con l'avvento dell'addomesticamento, la riproduzione non solo viene ricompensata economicamente; offre anche una compensazione o consolazione per tutto quello che la civilizzazione ha sradicato.
In mezzo agli effetti standardizzanti e disciplinanti degli odierni sistemi di tecnologia e capitale, siamo soggetti a una raffica di rappresentazioni e immagini senza precedenti. I simboli hanno in gran parte sovraffollato ogni cosa reale e diretta, sia nel percorso quotidiano delle interazioni personali sia nell'estinzione accelerata della natura. Di solito questo stato di cose è accettato come inevitabile, specialmente da quando la conoscenza generalmente accettata impone che la produzione di simboli sia la qualità cardinale che definisce l'essere umano. Da bambini impariamo che ogni comportamento, e la cultura stessa, dipende dalla manipolazione del simbolo; è questa la caratteristica che ci separa dai semplici animali.
Ma uno sguardo ravvicinato all'Homo attraverso i moltissimi millenni sfida l'inesorabilità o la naturalezza del dominio dei simboli nelle nostre odierne esistenze. Le nuove scoperte stanno conquistando con una frequenza crescente i principali titoli dei giornali. L'archeologia sta scoprendo che più di un milione di anni fa gli esseri umani erano intelligenti quanto noi - nonostante la primissima traccia in grado di poter datare l'attività simbolica (figurine, arte rupestre, artefatti rituali, registrazioni del tempo, ecc.) risalga ad appena 40.000 anni fa. Hanno usato il fuoco per cucinare già 1,9 milioni di anni fa e hanno costruito e navigato su imbarcazioni come minimo già 800.000 anni fa circa!
Queste persone devono essere state molto intelligenti; tuttavia fino a tempi relativamente recenti non hanno lasciato alcuna traccia tangibile di un pensiero simbolico. In modo simile, anche se i nostri antenati di un milione di anni fa possedevano il Quoziente d'Intelligenza per potersi schiavizzare a vicenda e distruggere il pianeta, si sono astenuti dal farlo fino a quando non è cominciata la cultura simbolica. Gli avvocati difensori della civiltà stanno facendo uno sforzo concertato per trovare l'evidenza di un uso del simbolo in tempi molto anteriori, eguagliando i tentativi vani dei decenni recenti di individuare la prova che possa rovesciare il nuovo paradigma antropologico di un'armonia e di un benessere preagricolo. Finora le loro ricerche non hanno dato dei frutti.
C'è un enorme baratro temporale tra i segni evidenti di capacità mentale e quelli di una qualche simbolizzazione di questa capacità. Questa discrepanza pone dei seri dubbi sull'adeguatezza di una definizione degli esseri umani come essenzialmente produttori di simboli. La congruenza tra gli inizi della rappresentazione e di tutto ciò che è malsano per la nostra specie sembra essere ancora più importante. Le domande fondamentali molto spesso si formulano da sole.
Una di queste domande riguarda la natura della rappresentazione.
Foucault ha sostenuto che la rappresentazione implica sempre un rapporto di potere. Può esserci un legame tra la rappresentazione e lo squilibrio di potere che si crea quando la divisione del lavoro assume il comando dell'attività umana. Allo stesso modo, è difficile vedere quanto si sarebbero potuti ingrandire i sistemi sociali in assenza della cultura simbolica. Queste cose sembrano come minimo inseparabili.
Jack Goody (1997) ha parlato della "continua spinta alla rappresentazione". Insieme a un impulso di comunicare facilmente identificabile, non è forse successo anche qualcosa di molto meno positivo? In tutte le generazioni anteriori alla civilizzazione, la gente ha fatto tante cose con la propria mente - compreso il comunicare - ma non ne ha ricavato del simbolico. Rappresentare la realtà implica un movimento verso un sistema completamente chiuso, di cui il linguaggio è il caso più ovvio se non addirittura l'esempio originario? Da dove questa volontà di creare sistemi, di nominare e contare? Perché questa dimensione che, con la sua anima essenzialmente dominatrice, pare sospetta come la ragione strumentale?
La lingua viene abitualmente descritta come una parte naturale e inevitabile della nostra evoluzione. Come la divisione del lavoro, il rituale, l'addomesticamento, la religione? Completate la progressione e vedrete che la fine della biosfera e l'alienazione sono anch'esse "naturali" e "inevitabili". La domanda incalzante è se ci sia o meno una via d'uscita dall'ordine simbolico.
"In principio fu il Verbo" - punto di convergenza della sfera del simbolico. Dopo che gli fu revocata la libertà edenica, Adamo diede dei nomi agli animali e i nomi furono gli animali. Allo stesso modo, Platone ritenne che la parola crea la cosa. Esiste un momento di accordo linguistico, e da allora in poi al fenomeno è imposta una struttura categorizzata. Questo patto tenta di non tener conto del "peccato originale" del linguaggio, che è la separazione tra lingua e mondo, tra parole e cose.
Molte lingue iniziano ricche di verbi, ma vengono disfatte gradualmente dal più comune imperialismo del sostantivo. Questo avviene parallelamente al movimento verso un mondo costantemente sempre più reificato, che si focalizza sugli oggetti e gli scopi a spese del processo. In modo simile, il vivido naturalismo dell'arte delle caverne apre la strada a un'estetica impoverita e stilizzata. In ambo i casi, il trattamento simbolico è addolcito dalla promessa di una ricchezza allettante, ma in ciascun caso i risultati a lungo termine si rivelano mortali. Le mode simboliche possono anche iniziare con una certa freschezza e vitalità, ma alla fine rivelano la loro effettiva povertà, la loro intima logica.
L'innato acume sensuale dei cuccioli umani si atrofizza stabilmente quando crescono e si sviluppano interagendo con una cultura simbolica che continua a monopolizzare e a infiltrarsi in molti aspetti delle nostre vite. Resta poco del non mediato, il diretto sopravvive appena. Fare l'amore, le relazioni intime, immergersi nella natura selvaggia, l'esperienza della nascita e della morte risvegliano i nostri sensi e la nostra intelligenza, stimolando una fame inconsueta. Noi desideriamo ardentemente altro dal mondo scarno e artificiale della rappresentazione, con il suo pallore di seconda mano.
La comunicazione resta aperta a tutti questi bagliori rinvigorenti che passano, non verbalmente, tra le persone. Che possano essere abbandonati tutti i canali di comunicazione intricati, ristretti e condizionati, poiché non possiamo vivere di quel che è disponibile. Quando i livelli di pena, sofferenza, perdita e vuoto crescono, l'apparato dominante pompa sempre più insoddisfazione e menzogne insostenibili.
Riferendosi alla telepatia, Sigmund Freud ha scritto nelle Nuove letture d'introduzione alla psicanalisi che "si è portati a sospettare che questo sia il metodo di comunicazione originario e arcaico". Acculturato da cima a fondo, Freud non ha dato seguito al suo sospetto e sembrava temere la forza vitale che accompagna tali dinamiche non culturali. Laurens van der Post (Il mondo perduto del Kalahari, 1958) ha riportato parecchie osservazioni dirette di comunicazione telepatica, a distanze considerevoli, tra le persone che solitamente vengono chiamate "boscimani". Nei loro scritti degli anni '50, Pobers e St. Barbe Baker hanno testimoniato la telepatia tra gli indigeni prima di essere colonizzati dalla civiltà. Lo menziono di passaggio come un breve sguardo alla realtà del non simbolico, una connessione diretta che fino a poco tempo fa esisteva realmente e che potrebbe essere riportata in vita tra le rovine della rappresentazione.
Forse linguaggio e arte originariamente sono comparse e si sono unite nel rituale, un'innovazione culturale tesa a gettare un ponte su di una novella separazione tra le persone e il loro mondo. Il termine "animismo" viene spesso usato, in modo spregiativo o addirittura peggiorativo, per descrivere la credenza che gli esseri non umani e persino gli oggetti siano abitati dagli "spiriti". Esattamente come il termine "anarchismo" è una descrizione sommaria dell'anarchia, un punto di vista o modo di vivere dilagante che rifiuta la gerarchia, "animismo" non riesce a rendere l'idea della qualità trasformatrice di una consapevolezza condivisa. Nel caso dell'anarchia c'è la consapevolezza che il vivere in eguaglianza con altri esseri umani necessiti il rifiuto di ogni forma di dominio, inclusa la leadership e la rappresentanza politica. "Animismo" si riferisce a un'estensione di questa consapevolezza ad altre forme di vita e addirittura agli abitanti "inanimati" del pianeta come le rocce, le nuvole e i fiumi. Il fatto che non esista una parola relativa ad animismo, come nel caso di anarchia, indica quanto siamo lontani da questa consapevolezza, nello stato di cose presente. L'anarchia verde stabilisce esplicitamente che l'anarchia deve comprendere la comunità degli esseri viventi, e in questo senso fa un passo verso il risveglio di questa consapevolezza.
È con l'avvento dell'addomesticamento, della divisione del lavoro e dell'agricoltura che gli esseri umani hanno perduto la consapevolezza di appartenere a una comunità terrestre di esseri viventi? La costruzione di monumenti e l'inizio di sacrifici animali e umani tenderebbero a supportare questa ipotesi. È caratteristico che la vittima, il capro espiatorio, sia ritenuta responsabile della sfortuna e della sofferenza della comunità, mentre le ragioni fondamentali di ciò non sono investigate né mitigate. Il rituale implica "enormi quantità di energie" (Knight in Dunbar, Knight and Power, 1999); di solito è rumoroso, multimediato, emotivo e ridondante, testimoniando quanto sia sentita la profondità della crisi sottostante.
Il movimento dall'animismo al rituale va di pari passo alla trasformazione dei piccoli gruppi, basati sul rapporto diretto faccia a faccia, in società grandi e complesse. La cultura prende il sopravvento, con professionisti specializzati che hanno il controllo sul regno del sacro. Il desiderio di questo originario sentimento di comunione con gli altri esseri e di un'intima vicinanza con i propri compagni umani non può giammai essere soddisfatto dalle attività rituali sviluppatesi in un sistema sociale gerarchico. Questa tendenza culmina negli insegnamenti delle religioni trascendentali: dal momento che il significato delle nostre vite non ha più nulla a che vedere con la vita sulla terra, dovremmo puntare le nostre speranze sulla ricompensa in cielo. Viceversa, come nel caso degli Aka e degli Mbuti descritti sopra, i sentimenti di unità con la terra e con i suoi abitanti, e un senso di gioia e di pieno significato dell'esistenza, sembrano fiorire quando noi esseri umani viviamo in gruppi egualitari, basati su relazioni dirette.
Tornando al linguaggio, un luogo comune è che la realtà sia interamente svelata tramite il linguaggio - che nei fatti la realtà sia decisamente mediata dal linguaggio. Il postmodernismo alza questa posta in due modi. Visto che il linguaggio è un sistema sostanzialmente autoreferenziale, afferma il postmodernismo, il linguaggio non può implicare realmente un significato, un senso. Di conseguenza, c'è solo il linguaggio (quando c'è solo la civiltà); non c'è via d'uscita da un mondo definito dai giochi linguistici (e dall'addomesticamento). Ma l'evidenza archeologica ed etnografica dimostra chiaramente che la vita umana è esistita al di fuori della rappresentazione e nulla preclude definitivamente agli esseri umani di vivere di nuovo in questo modo - per quanto nel loro adattarsi al sistema i postmodernisti recitino con devozione che tutto ciò non può esistere.
L'ultima spiaggia della rappresentazione è l'attuale "società dello spettacolo" descritta così vividamente da Guy Debord. Noi ora consumiamo l'immagine dell'esistenza, la vita è passata allo stadio della sua rappresentazione come spettacolo. Mentre la tecnologia offre all'individuo la realtà virtuale, l'insieme dei media elettronici crea una comunità virtuale, uno stato simbolico avanzato di consumo passivo e impotenza appresa.
Ma per l'ordine regnante il bilancio mostra una previsione incerta. Per dirne una, in ambito politico la rappresentazione è accolta con uno scetticismo e un'apatia simile a quella che si manifesta per la rappresentazione in generale. C'è mai stato tanto incessante chiacchiericcio sulla democrazia, e meno interesse reale per essa? Rappresentare o essere rappresentati è una degradazione, una riduzione, sia nel senso della cultura simbolica sia in termini di potere.
La democrazia, ovviamente, è una forma di dominio. I partigiani dell'anarchia dovrebbero saperlo, anche se quelli di sinistra non hanno problemi con il governare. L'anarcosindacalismo e altre correnti dell'anarchismo non mettono in discussione alcune tra le istituzioni più fondamentali come la divisione del lavoro, l'addomesticamento, il dominio sulla natura, il Progresso, la società tecnologica, ecc.
Per citare di nuovo Ridley Walker, come antidoto: "Posso sentire crescere qualcosa dentro di me è simile a un lago dentro di me che sta crescendo e dicendo, perdilo. Sta dicendo lascialo andare. Sta dicendo l'unico potere è nessun potere." Il cuore dell'anarchia.
Heidegger, in "Che cosa significa pensare?", ha consigliato che un'attitudine di "apertura al mistero" promette "un nuovo terreno e nuove fondamenta sulle quali possiamo stare e durare nel mondo della tecnologia senza essere messi in pericolo da questa". Un orientamento antiautoritario non consiste nell'attitudine passiva del solo cambiamento della propria coscienza. Anzi, la tecnologia e la sua complice, la cultura, devono essere accolte con un'autonomia risoluta che guarda all'intero arco della presenza umana e rigetta tutte le dimensioni di cattività e distruzione.

Tratto da Anarchy #52, autunno/inverno 2001/2002

Nessun commento: