Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post

https://drive.google.com/file/d/1p3GwkiDugGlAKm0ESPZxv_Z2a1o8CicJ/view?usp=drivesdk

venerdì, giugno 25, 2010

Victor Serge - Memorie di un rivoluzionario da Anarcotico.net

Victor Serge (1890-1947), questo celebre scrittore russo, che si firma con uno pseudonimo, il suo vero nome essendo Kibalcic, uomo dalle numerose emigrazioni, redasse una sorta di autobiografia politica voluminosa e consideratissima, che verrà pubblicata per la prima volta in Europa quattro anni dopo la sua morte avvenuta in Messico, in esilio. In essa Serge ci parla perspicuamente e precipuamente della Rivoluzione Russa del 1917, con uno stile di tristezza indefinita ed inafferrabile, con un tono di vaga cupezza; tutto questo suo lavoro è in ultima analisi permeato da uno stanco ed inenarrabilmente tragico trasporto, ed esprime una sensazione infinita ed indescrivibile di solitudine, di vuoto esistenziale, di sconfitta, ma alla fine di ogni episodio sviscerato, che a mio avviso nemmeno il più fine e colto degli intellettuali reazionari saprebbe rendere così mirabilmente e così negativamente con il risultato di delegittimare l'atto e il concetto stesso di rivoluzione, si introduce un raffazzonato ottimismo, calato dall'alto, un salto ingiustificato, con un vertiginoso ribaltamento, il cosiddetto e banalissimo "velo di speranza", una visuale storico-teleologica, quasi provvidenzialistica, certo, coerentemente antiborghese, ma inverosimile nella sua fiducia costante e tuttavia sempre frustrata verso gli uomini, quegli uomini e il loro agire "allo scopo di...", "nella misura in cui...", "affinchè...", schiavi del politicantismo e dell'economicismo e dei loro obbrobriosi e vieti parametri; l'autore giunge così alla formulazione di ipotesi alternative più terribili e catastrofiche del processo rivoluzionario stesso nel momento del suo compiersi, che Serge siffattamente in guisa funerea tratteggia, contraltari possibili rispetto alla puntuale sconfitta del processo rivoluzionario medesimo, ipotesi che non hanno e non possono avere fondamenti e riscontri, limitandosi come sono ad essere congetture fantasiose.
E così anche la repressione della Comune di Kronstadt (1921) e del machnovismo vengono descritte come agghiaccianti farse e buffonate, a cui si sarebbe potuto porre rimedio, forse, ma fino ad un certo punto, limitatamente, se ci fosse stata la "buona volontà", magari politica oltre che umana, da parte di tutti gli attori sulla scena, ma che in fondo, è stato meglio che gli avvenimenti si siano dipanati con un tale esito antilibertario, piuttosto del Terrore bianco che sarebbe per Serge senz'altro sopravvenuto in caso di disfatta bolscevica e di vittoria, giustappunto, del tentativo di Kronstadt.

Curiosa e tortuosa logica burocratica! La burocratizzazione, il nascente "totalitarismo bolscevico" -sono parole dell'autore- Serge dichiara di averli fin nell'immediato visti sorgere, ma fino alla fine egli rimase membro devoto di quello stesso partito al potere, giudicando l'anarchismo "una ideologia da bambini", per la quale peraltro aveva da giovane, in Francia, mediocremente militato. Si, il totalitarismo l'ho compreso e divinato subitaneamente!-ma come sono acuto e intelligente! La prosopopea e l'insipienza di questi rivoluzionari sconfitti non conosce limiti, e quest'opera ne è un'ennesima conferma. Vedere sorgere il totalitarismo non ha comunque impedito a Serge di denigrare i comunisti di sinistra russi, "l'Opposizione Operaia" di Aleksandra Kollontaij e dei suoi compagni, per il loro "disfattismo rivoluzionario", esaltando rispetto ad essa e di controcanto la sua "militanza critica" nel partito bolscevico; ad ogni modo, però, egli va affermando, senza assumere incarichi da funzionario, coinvolto ma non troppo, ipocritamente, anche se in un certo qual modo sì, li svolse, poichè erano inevitabili... Che impostura! Lo squallore menzognero e doppiogiochista così occultato emerge altresì molto più chiaramente e fortemente: ed io credo che di fronte a questo esponente del così nominato "marxismo libertario", di cui fu profeta insieme a Daniel Guerin e Maximilien Rubel, la qualificazione più eufemistica che si possa dire di lui e dei suoi seguaci è questa-sono "anime belle", di jaspersiana memoria, nella determinazione o accezione dell'espressione dataci da Galvano Della Volpe, ma senza tuttavia possedere la dignità e la statura morale di un Karl Jaspers!

Alla fine le obiezioni mosse da Serge agli individualisti di fronte al quadro che ci offre sono risibili, anzi costoro ne vengono fuori aureolati, come in una deliquescente apoteosi.
Prendiamo le sue infamie propinate contro la Banda Bonnot: a suo dispetto, descritti da Serge medesimo uno per uno, i suoi componenti ci appaiono, di volta in volta, per ciò che dicono e per ciò che fanno, geniali, eroici, profetici, tragici, sublimi, disperati, coerenti, attivi, sardonici, sarcastici, demolitori, farneticanti, inarrivabili, titanici, magnifici, dei veri e propri Unici, Prometei e Capanei dell'Anarchia.
Del proletariato industriale o post-industriale, schierato a fianco della Tradizione, essi avevano inteso tutto con un anticipo sui tempi che fa spavento; e lo stesso loro discorso circa il valore che si deve attribuire alla vita umana, che il Ventesimo Secolo in tutto il suo dispiegarsi ha poi sviluppato, in ogni luogo del pianeta ove si facesse Storia e Politica, quale debba essere e quale effettivamente è sempre stato, conduce ad asserire propriamente questo: cioè che essa, la vita umana, è Nulla, assolutamente ed indefettibilmente Nulla. La barbarie è, in conclusione, ciò che Serge non ci dice, ed anzi, pur smentito dai fatti, egli svolge il panegirico della Storia e della Politica attraverso le quali può attuarsi ogni sorta di emancipazione e di liberazione, marxisticamente, mentre è vero esattamente il contrario, proprio la Storia e la Politica sono fons et origo di ogni aberrazione, e da esse non si può che uscire in un modo, quello di Jules Bonnot, anche se poi la società spettacolare è in grado di far rientrare questa fuga nei suoi piani e nei suoi canoni e la indirizza verso la porta del tinello.
Mai così espliciti e palesi nella loro mediocrità emergono ad ogni modo gli uomini che, come scriveva Nietzsche, vogliono migliorare e riformare l'Umanità; con Serge loro degno rappresentante, evidenti e sereni in tutta la loro futilità, bassezza, viltà, volgarità, puerilità, incomprensibilità -reciproca, tra loro e gli altri, ed incomprensibilità di sè medesimi e di loro per il Tutto, che è Nulla.

Serge ci offre un ritratto nero, glaciale, vivido, freddamente reso, disperante in ogni senso e direzione, che non offre spiragli, e che vuole invece dare un'immagine assai diversa da questa, nel suo intento primigenio. Eterogenesi dei fini in un'opera letteraria. Il nostro scetticismo, il nostro cinismo, la nostra iconoclastia di cui furente vaneggia altrove il sempre più nostro Enzo Martucci, ne escono rafforzati, inattaccabili, inaccessibili, indiscutibili, inconfutabili, e come gemme rinchiuse in una torre d'avorio, incontaminabili.


L'autore vuole spingerci a fare la rivoluzione, a far prevalere il "Noi" sull'Io, ad abbandonare l'individualismo; lo scrittore marxista libertario Victor Serge non poteva comporre opera migliore per portarci definitivamente all'altra sponda. L'unico rammarico rimane per quei libertari, da lui delineati e che pur amiamo, i quali scelsero inopinatamente di permanere e di agire all'interno della Storia e della Politica e che non si sottrassero pertanto, stirnerianamente, al sussistente, e che da esso rimasero purtroppo schiacciati. Machno, Berkman, la Goldman, i teorizzatori della dittatura libertaria del proletariato e insieme a questi tanti altri, così diversi tra loro, così ingenui e pure così belli, lo ripeto, furono tutti annichiliti dagli ingranaggi del potere. Ma forse allora era troppo presto per saperlo. Dico forse. Gli alibi soltanto oggi sono veramente tutti esauriti, e chi opera diversamente, chi non rifiuta categoricamente la Storia e la Politica, chi non si adopera per la fuoriuscita dalla Politica e dalla Storia, ormai non ha più scusanti per noi, nel migliore dei casi è in malafede, se non peggio.

Ed ora, en passant, mi rivolgo alla post-fazione di Goffredo Fofi che adorna l'opera di Serge, reperita nella recente riedizione di questa per i tipi delle Edizioni e/o, 2001: Fofi nomina l'Italia; ma che diavolo c'entra l'Italia e la percezione che i giovani hanno di essa con queste Memorie di Serge? Forse per l'accenno del nostro (si fa per dire) "preveggente, chiaroveggente, antiveggente" -sono parole che Serge, per nulla autoironicamente, indirizza a sè-, il quale ci avverte di aver colto in anticipo rispetto ai suoi compagni di partito (bolscevico, naturaliter! E lo ribadisco) la natura di regime controrivoluzionario stabile e consolidantesi del fascismo in Italia, mentre gli altri, Lenin e Bordiga in testa, poveri candidi ed ignari, ne rilevavano solo l'aspetto palesemente e fin troppo evidentemente pagliaccesco della ridicola parata ottobrista romana del 1922? Oppure a causa del riferimento ad Angelica Balabanoff, marxista coerentissima, russa ma anche italiana d'adozione alla luce della sua militanza complessiva, ridicolizzata dal divertito ma per nulla divertente Serge come "carbonara" e "mazziniana", e per l'ammirazione da lei manifestata, incondizionata e piagnucolosa, verso Matteotti, socialdemocratico e riformista, benchè ella fosse animatrice del P.S.I. massimalista e quindi politicamente avversaria di Matteotti stesso, il cui martirio eroico non poteva certo cancellare il baratro che divideva i molteplici socialismi italiani? Non mi pare che la Balabanoff abbia avuto più demeriti o si sia fatta più illusioni del signor Serge, sicuramente non ne ebbe di maggiori e nemmeno di peggiori. Ella lasciò la Terza Internazionale, molto prima dell'intelligentissimo Serge, il quale, ad un certo punto del racconto, nella sua opera dichiara anche di nutrire una certa ammirazione per Felix Dzerzinsky, il capo della Ceka, benchè, forse conscio dell'enormità, si precipiti a precisare che fosse un suo "avversario"; questo dettaglio andava espresso per quei sedicenti anarchici che ad una figura come quella di Serge fanno riferimento, specialmente in merito ai suoi attacchi denigratori poc'anzi rammentati da costui condotti contro gli individualisti, e non mi sembra che questa predilezione-confessione, per nulla a denti stretti, sia stata una debolezza più giustificabile di quelle della Balabanoff.
Questi non sono che alcuni esempi. Quindi, non certo all'Italia fanno pensare le considerazioni di Serge, per quanto io possa essere ottuso; e nemmeno si può favoleggiare di Italia con, per vie traverse pervenendo, vaghe attinenze e contiguità.

In sostanza: il tutto di Serge mi comunica l'impressione di una versione, magari molto intellettualistica e alta, affabulatrice e sofisticata, ma pur sempre di una redazione raccogliticcia ed imprecisa, una congerie confusa, umorale e scriteriata di pettegolezzi, altro che testimonianza imprescindibile delle tragedie del Novecento, una enorme bufala! -allo scopo poi di suffragare non si sa bene quale coerenza di chi scrive (verso che cosa, se non le "sue superiori idee rivoluzionarie"?) e quale tendenza ideologica (forse il marxismo libertario già citato, quello di Daniel Guerin, di Victor Serge, di Maximilien Rubel, o di chi altro, o cos'altro?). Insomma a metà del guado tra un romanzo-sciocchezzaio e un saggio politico superficiale, che vorrebbe apparire intonso. Lo stile, invece, sarebbe anche gradevole, almeno per i nostri gusti, secco, scarno, tagliente, senza fronzoli, francescano, con alcuni momenti di pura rabbia, di cieco furore-troppo pochi, in definitiva. Ma la condanna sergiana di Jules Bonnot dequalifica del suo significato potenzialmente eversivo la bellezza estetico-stilistica dell'opera.
Ci vorrebbe un po' più di riservatezza, per l'appunto, di distacco, di radicalismo, sì, ma aristocratico, come ce lo indica Georg Brandes, nel trattare le tragedie. Ma a noi non preme la rivoluzione della gente della risma di un Serge, bensì l'affermazione egolatrica. Questa è una lettura e una letteratura superflua per noi anarco-nichilisti; lascia il tempo che trova, e non tutti trovano il tempo. Tutto il resto è silenzio.

Soltanto su una affermazione concordo con Fofi e, paradossalmente, con Serge, il quale si riferiva però, avanzando ciò, al mondo della belle èpoque: il mondo di oggi, come quello che precedette la Grande Guerra, è un mondo senza evasione possibile. L'unica, votata alla disfatta apocalittica poichè santa e pura, ci è offerta dalla prassi di Jules Bonnot. Ed è ad essa, radiosa e gemebonda evasione, in questi tempi di pesante tregenda, che noi smaniosi dell'Impossibile e dell'Arcano ci ineriamo senza fallo.

"Il tramonto dei popoli e dell'umanità sarà la mia ascesa".

Max Stirner, "L'Unico e la sua proprietà", 1845

"Durante l'ultimo mese del suo soggiorno a Parigi, quando, deluso di tutto, abbattuto dall'ipocondria, schiacciato dallo spleen, era giunto a una tale sensibilità nervosa che la vista di un oggetto o di un essere spiacevole si imprimeva profondamente sul suo cervello e occorrevano parecchi giorni per cancellarne anche leggermente l'impronta, il volto umano appena intravisto per via era stato uno dei suoi più lancinanti supplizi. In realtà soffriva alla vista di certe fisionomie, considerava quasi come un insulto le espressioni paterne o burbere dei volti, sentiva una gran voglia di prendere a schiaffi quel tale che bighellonava chiudendo le palpebre con aria saputa, quell'altro che si dondolava sorridendo alla sua immagine davanti alle vetrine, quell'altro ancora che sembrava metter sossopra un mondo di pensieri mentre divorava, con le sopracciglia contratte, tartine e fatti diversi di un giornale. Fiutava là sotto una così inveterata stupidaggine, una tale esecrazione per le sue proprie idee, un tal disprezzo per la letteratura, per l'arte, per tutto quello che lui adorava, bene impiantati in quegli stretti cervelli di bottegai, preoccupati solo di far birbanterie e di far soldi, accessibili solo a quella bassa distrazione degli spiriti mediocri che è la politica, che rientrava in casa pieno di rabbia e si chiudeva a chiave con i suoi libri. Infine odiava con tutte le sue forze le nuove generazioni, figliate di ignobili tangheri che hanno il bisogno di parlare e di ridere forte nei ristoranti e nei caffè, che vi urtano senza domandarvi scusa sui marciapiedi, che vi gettano tra le gambe, senza il minimo cenno di scusa o di saluto, le ruote di una carrozzina da bambini".

Joris-Karl Huysmans (1848-1907), "A ritroso", Capitolo Secondo, 1884

Nessun commento: