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venerdì, giugno 25, 2010

UN REQUIEM PER LA RIVOLUZIONE PROLETARIA

In alcuni teorici che provengono dall'esperienza di Potere Operaio e dell'Autonomia Operaia, pur nella complessità e difformità di molte loro analisi, vi è una comune consequenzialità, quasi una pedissequità nell'attribuire a Soggetti sociali oppressi, sempre nuovi e mutevoli ma ben determinati, che storicamente si succedono sul palcoscenico dello Spettacolo Mondiale Integrato, in maniera ossessiva, potenzialità libertarie, di nuova solidarizzazione e/o trasformazione del vivere comune, in grado di contrastare la deriva che imperversa e che dal 2001, "Anno I della Guerra Globale Permanente", come lo definiscono, è sempre più spaventosa, minacciosa e trabocchevole.

In questi galoppanti deliri, espressione questa che è loro fin troppo d'onore e che vorrei tributare a me soltanto, la classe operaia di fabbrica o proletariato industriale o anche operaio professionale diviene operaio massa, e poi operaio sociale, lavoratori immateriali, moltitudini, General Intellect; muta l'aspetto e anche la sostanza, ma perdurano, nei sempiterni nuovi Soggetti, virtuali strumenti di solidarietà e di collaborazione e di umana fratellanza in funzione antiautoritaria, a cui basterebbe un nonnulla per essere attivati.

Antonio Negri concludeva un suo scritto dal carcere ove si trovava con una analoga presa di posizione, che tutti i suoi sodali ed epigoni non avrebbero mai più abbandonato, con una ispirazione ottimistica da fare spavento, se non risultasse ridicola, certo col senno di poi, ma che risulta fasulla e amara nelle sue (per noi) malinconiche e stanche riproposizioni odierne.
Ecco, prese come esemplari, appunto, le ultime proposizioni o elucubrazioni di Toni Negri, da "Il comunismo e la guerra", Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1980 (stampato nel mese di Maggio per l'esattezza): "Il rapporto tra operaio sociale e produzione sociale non contiene altra mistificazione che non sia il comando: un comando che organizza solo comando.

Questa mistificazione, questa incredibilmente vuota legittimità del capitale al comando, non può non essere distrutta.
Mostrata per quello che è: inutile blocco allo sviluppo della forza produttiva del proletariato. Un proletariato che nella socialità della sua esistenza, nella ricchezza ontologica delle sue qualificazioni, è ormai capace della direzione della società. Esso ha nel sangue la passione rivoluzionaria della scienza e dell'innovazione, ha in corpo la capacità di produrre e quindi l'odio per il lavoro, ha nella complessità sociale delle sue relazioni l'intelligenza e la comprensione sovvertitrice della giornata lavorativa.

E' un passo: legare assieme produzione, innovazione, amministrazione, nella logica della liberazione dal lavoro. Nella speranza, nella felicità vicina.
E' un passo: facciamolo".
Invece, nella terribile concretezza della realtà, che ci spinge ad essere cinici, scettici, iconoclasti, come scriveva il nostro Enzo Martucci, oggi, alle masse povere e diseredate del Terzo e Quarto Mondo, spesso a rimorchio di tiranni, benchè quasi sempre o meglio molto sovente "antimperialisti", si contrappone in Occidente il "Neoproletariato", nell'accezione determinata recentemente, più precisamente ribadita e riaffermata, da Tommaso Labranca nel suo ultimo libello edito in questo fatidico anno; vittima e carnefice allo stesso tempo, il Neoproletariato è fruitore di spettacoli e modelli consumistici ormai inattaccabili ed irreversibili, parte attiva e insieme passiva della barbarie dell'Esistente, che tra le altre infamie ha prodotto anche noi, responsabili di questo immondo sito Web, e non saranno certo minoranze coscienti (i cosiddetti "no global" ad esempio) oppure scelte etiche individuali nobili ma ininfluenti a determinare o provocare mutazioni, a fermare la corsa impazzita, tra il volgare strepito e lo sciocco starnazzare della viscida massa di perdizione, verso l'autodistruzione del Pianeta Terra, l'autoestinzione della razza umana, fenomeni evidentemente ineluttabili che ci lasciano nella più totale, completa ed atarassica indifferenza.

Il freno non funziona più, anche se si possedesse la volontà di intervenire. L'individualista tutto questo lo sa molto bene, egli non ha mai avuto, non ha, non vorrà mai avere per partito preso referenti sociali (forse "i nuovi soggetti"?), rifiuta di coniugare l'analisi logica e grammaticale, l'unica sua risorsa è la rivolta esistenziale, personalistica, solitaria, aquilifera, irrevocabilmente ed inesorabilmente votata all'eterna sconfitta; la sua è consapevolezza dell'incomunicabilità, dell'impossibilità di una qualsivoglia condivisione tra gli esseri viventi, della condizione di solitudine inafferrabile, irrappresentabile e in questo senso beniana, che è caratteristica diffusa e immanente in ognuno di noi; il suo è un grido di rabbia e di dolore, moralistico forse, bacchettone magari, ma pienamente conscio della propria futilità.

Esso, l'anarchico individualista aristocratico intendo, respinge in blocco il concetto di Utilitarismo che muove tutti gli attori della scena politica e sociale, tutti, nessuno escluso, Movimento Anarchico Ufficiale compreso. L'individualista è inutile pro-forma e per forza di cose, lancia guanti di sfida, a prescindere dalle intenzioni.
Moltitudini! Se bastasse essere oppressi politicamente ed economicamente sfruttati da un punto di vista oggettivo per portare alla disintegrazione dell'Ordine Costituito coloro che lo subiscono! E anche l'etica cosa è in fondo se non una invenzione borghese, anzi pre-borghese, di cui è depositaria da sempre la casta dominante al potere la quale succede ad altre caste dominanti, nel corso delle generazioni, all'insegna dell'innovazione, della razionalizzazione e della modernità (o post-modernità, se voi volete; a me che mi frega?), o presunte tali.

Non c'è verso: Vilfredo Pareto (1848-1923) aveva adamantinamente ragione nell'argomentare di un fatale ed eterno avvicendamento di èlites dominatrici. E nessuno v'è che voglia essere salvato o redento, ne' il vetero-proletariato industriale ne' il proletariato mentale post-operaio, ne' il neoproletariato, postindustriale o no, e neppure le masse senza nome dei Continenti "a basso tasso di sviluppo".

Quante parole inutili coniate, quante espressioni gergali superflue (e tutte per questo bellissime).
Non sopporto più le prediche clericali, le alte dissertazioni accademiche, le enunciazioni idillico-comuniste, quelle nostalgiche del bel tempo che fu o quelle prefiguratrici di un futuro diverso, radioso o migliore, le dimostrazioni di un uso più razionale e giusto delle nuove tecnologie che sia possibile, così come "Un altro mondo è possibile".

Lasciateci bollire nel nostro brodo. Noi non vogliamo ne' il potere ne' l'abbattimento del potere.
Noi non crediamo o non crediamo più alla rivoluzione, e nemmeno crediamo ad un naturale e graduale processo di svuotamento del potere riproduttivo del servigio-capitale a favore del servigio-lavoro, per usare un'espressione del giovane Enrico Leone pre-sindacalista (precedente quindi il 1904) che noi, nonostante tutto, amiamo, per la sua infinita bontà d'animo e per la sua travagliata esistenza.

Il lavoro non rende liberi, ma ci lega al concetto stesso di società che noi rassegnatamente combattiamo, aborriamo e respingiamo. In definitiva, io non voglio nulla. Io ho fondato la mia causa sul nulla. Speriamo, cerchiamo, dunque, di perdere bene.

"Voi poveri esseri, che potreste vivere così felicemente se solo poteste fare qualcosa a piacere vostro, dovete ballare al suono del piffero dei maestri di scuola e dei domatori di orsi, per fare acrobazie che mai fareste da soli. E non vi ribellate neppure per il fatto che vi si prende sempre per un verso che non è quello che voi volete. No, voi ripetete a voi stessi, meccanicamente, la frase che vi è stata detta: "A che cosa sono chiamato io? Cosa devo fare?" Basta che voi domandiate in questo modo per farvi dire ed imporre ciò che dovete fare, per farvi indicare la vostra vocazione, oppure per farvi prescrivere la vostra vocazione o per farvela imporre a seconda dei precetti dello spirito. Questo, dal punto di vista della volontà significa: io voglio ciò che devo. Un uomo non è chiamato a nulla, non ha nessun compito, nessun fine, così come non l'hanno le piante o gli animali. Il fiore non segue la vocazione di perfezionarsi, ma impiega tutte le sue forze per godere e consumare il mondo come meglio può, cioè assorbe tanti sali dalla terra, tanta aria dall'etere, tanta luce dal sole, quanta ne può ricevere o contenere. L'uccello non vive per una vocazione, ma utilizza le sue forze quanto più può: divora insetti e canta a suo piacimento. Le forze del fiore e dell'uccello sono ben poca cosa se messe a confronto con quelle dell'uomo, e un uomo, che utilizzerà tutte le sue forze per intervenire sul mondo, sarà molto più potente del fiore o dell'uccello. Non ha una vocazione, ma ha forze che dove esistono si manifestano, perchè il loro essere consiste unicamente nella loro manifestazione e possono stare tanto poco inattive quanto lo può la vita che, se "restasse ferma" anche solo un secondo, non sarebbe più vita. Ora, si potrebbe dire all'uomo: usa la tua forza. Ma questo imperativo potrebbe intendersi nel senso che il compito dell'uomo sarebbe proprio quello di utilizzare la sua forza. Non è così. In realtà ognuno usa la sua forza senza che questa sia interpretata come la sua vocazione: ciascuno in ogni attimo usa tanta forza quanta ne possiede".

(Max Stirner, "L'Unico e la sua proprietà", 1845).

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