Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post

https://drive.google.com/file/d/1p3GwkiDugGlAKm0ESPZxv_Z2a1o8CicJ/view?usp=drivesdk

domenica, giugno 01, 2014

ANSELM JAPPE LE SOTTIGLIEZZE METAFISICHE DELLA MERCE



Testo letto nel simposio Il fascino discreto della merce, in Roma, 8.5.1998. Publicato in Invarianti 31

ANSELM JAPPE

LE SOTTIGLIEZZE METAFISICHE DELLA MERCE

La merce come problema

Presentarsi a un convegno sulla merce per polemizzare contro l'esistenza stessa della merce può sembrare altrettanto sensato quanto andare a un convegno di fisici per protestare contro l'esistenza del magnetismo, o della forza di gravità. L'esistenza di merci viene generalmente considerata un fatto del tutto naturale, almeno in ogni società un po' sviluppata, e la questione è solo che cosa farne. Naturalmente si può affermare che alcuni nel mondo hanno troppo poche merci e che bisognerebbe dargliene un po' di più, o che alcune merci sono malfatte, o che inquinano, o che sono pericolose. Ma questo non dice niente contro la merce in quanto tale. Certo, si può disapprovare il "consumismo" o la "commercializzazione", cioè ingiungere alla merce di restare al suo posto e di non invadere altri campi, quali il corpo umano. Ma questi rilievi hanno un sapore moralistico e sembrano inoltre piuttosto "datati", ed essere datati è l'unico crimine intellettuale che tuttora esiste. Oltre a ciò, la società moderna, le rare volte che sente messa in discussione la merce, corre col pensiero subito a Pol Pot, e lì la discussione finisce. La merce è sempre esistita e sempre esisterà, per quanto possa cambiare la sua distribuzione.
Se si intende per merce semplicemente un "prodotto", un oggetto che passa da una persona all'altra, allora l'affermazione dell'inevitabilità della merce è sicuramente vera, ma anche alquanto tautologica. Eppure, questa è la definizione che ne ha dato tutta l'economia politica borghese; già secondo Adam Smith, la tendenza a scambiare fa parte della natura dell'uomo. Se non ce ne vogliamo accontentare, dobbiamo riconoscere nella merce una forma storicamente specifica di prodotto umano. La merce come forma sociale del prodotto ha svolto durante la maggior parte della storia dell'umanità un ruolo del tutto marginale, e solo da qualche secolo - e in buona parte del mondo solo da pochi decenni - essa è diventata la base della produzione materiale e della vita sociale. Nelle società preindustriali, precapitalistiche, la produzione e il consumo vengono regolati dal dono di rivalità, il cosiddetto potlatch, o dalla produzione per i propri bisogni, dove solo le eccedenze vengono scambiate, o da una distribuzione diretta, tradizionale o autoritaria.

Scavare e riempire buche

Tuttavia, ed è molto importante sottolinearlo, la merce non è solo il valore di scambio, ma è l'unità del valore di uso e del valore di scambio. Un qualche valore di uso ci deve sempre essere: esso costituisce un limite contro cui urta in continuazione la tendenza del valore di scambio, del denaro, all'autoaccrescimento illimitato e tautologico. Ciò significa soprattutto che la merce debba veramente contenere del lavoro speso, e del lavoro che segue i criteri di produttività vigenti. Questo lavoro "produttivo" è la sua sostanza, di cui non può fare a meno. Ma tale sostanza è, per sua natura, limitata. La merce, e perciò il denaro, non è frutto di una convenzione soggettiva, e dunque non è aumentabile a volontà, per esempio con la creazione continua di crediti. Il suo nucleo reale è la capacità di utilizzare forza-lavoro secondo dei parametri di redditività che a causa della concorrenza si inalzanno sempre di più e diventano perciò sempre più difficili da raggiungere. Là dove ciò non e più possibile, i profitti, e poi tutta la vita economica debbono venir simulati, ed è quanto è successo in maniera crescente a partire dall'inizio degli anni settanta. Si potrebbe perciò definire la merce anche come una forma che cerca continuamente di liberarsi dalla sostanza, da cui viene tuttavia sempre di nuovo raggiunta e limitata.

Il feticismo e l'autodistruzione

Questo processo in cui la vita sociale degli uomini si è trasferita alle loro merci è ciò che Marx ha chiamato il feticismo della merce: invece di controllare la loro produzione materiale, gli uomini ne vengono controllati; essi sono governati dai loro prodotti diventati indipendenti, così come succede nella religione. Il termine "feticista" è entrato nel linguaggio quotidiano, e spesso si dice di qualcuno che è un feticista della macchina, o dei vestiti, o del telefonino. Questo uso del termine "feticista" sembra collegarsi però più che altro al significato in cui l'ha usato Freud: conferire a un mero oggetto un significato emotivo che deriva da altri contesti. Benché l'oggetto di questi feticismi siano delle merci, è poco probabile che il "feticismo" di cui si parla quotidianamente sia il "feticismo della merce" di Marx. Da una parte, perché è piuttosto difficile ammettere che la merce in quanto tale, e non solo singole merci, possa essere tra noi moderni oggetto di un culto paragonabile a quello che i cosiddetti selvaggi rendevano ai loro totem o animali imbalsamati. L'amore eccessivo per certe merci è solo un epifenomeno del processo in cui la merce ha stregato l'intera vita sociale, perché tutto ciò che la società fa o può fare è stato proiettato sulle merci.

La merce e l'inconscio

Dopo Marx, per molti decenni, e nonostante gli apporti di György Lukács, di Isaac Rubin e di alcuni altri, ogni analisi del feticismo è stata annacquata nella ben più vasta e indeterminata categoria di "alienazione", facendone un fenomeno della coscienza, una falsa opinione o valutazione delle cose in qualche modo collegabile alla tanto discussa "ideologia". Solo nella seconda meta degli anni sessanta il concetto di feticismo e l'analisi della struttura della merce e del lavoro astratto hanno conquistato un posto di rilievo nella discussione, soprattutto in Germania e in Italia.

Una critica radicale della merce

Non si è trattata di una teoria libresca tra le tante: la rivolta del Maggio parigino, di cui i situazionisti erano stati in qualche modo i battistrada intellettuali, è stata anche la prima rivolta moderna fatta non in nome di rivendicazioni economiche o piattamente politiche. Essa era piuttosto nata dall'esigenza di una vita diversa, autonoma e liberata dalla tirannia del mercato e dello Stato. Nel 1968 hanno tremato gli Stati dell'Est come quelli dell'Ovest, i sindacati e i proprietari, la destra e la sinistra: in altre parole, tutte le diverse sfaccettature della società della merce. E nessuno era "in fase" con questa ribellione quanto lo erano i situazionisti.

L'originale e la copia

Debord aveva predetto nel 1967: "Nel momento in cui la società scopre di dipendere dall'economia, l'economia di fatto dipende da essa [...] Là dove c'era l'es economico deve venire l'io [...] Il suo contrario è la società dello spettacolo, dove la merce contempla se stessa in un mondo da essa creato". L'inconscio sociale, l'es dello spettacolo, su cui si basa l'organizzazione sociale attuale, doveva mobilitarsi per tappare questa nuova falla apparsa proprio in un momento in cui l'ordine regnante si credeva più al sicuro che mai. Tra le contromisure prese dall'inconscio economico troviamo anche i tentativi per neutralizzare la critica radicale della merce che aveva trovato la sua espressione più alta nei situazionisti. Ridurre Debord stesso a più miti consigli era impossibile, a differenza di quanto è avvenuto con quasi tutti gli altri "eroi" del '68. E la sua teoria stessa non lasciava spazi a equivoci: "Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all'occupazione totale della vita sociale" vi si legge. Ma vi era un'altra possibilità per gli stregoni della merce: quella di fingere di parlare il linguaggio della critica radicale, apparentemente in maniera ancora un po' più estrema ed audace, ma in verità con intenti e contenuti opposti. Che la nostra epoca preferisca la copia all'originale, come dice Debord citando Feuerbach, si è rivelato vero anche nei confronti della critica radicale stessa.
Secondo Debord, lo spettacolo è il trionfo del parere e del vedere, dove l'immagine sostituisce la realtà. La televisione viene citata da Debord solo come esempio; lo spettacolo è per lui uno sviluppo di quell'astrazione reale che domina la società della merce, basata sulla pura quantità. Ma se siamo immersi in un oceano di immagini incontrollabili che ci bloccano l'accesso alla realtà, allora è apparentemente ancora più ardito dire che questa realtà è sparita del tutto e che i situazionisti erano ancora troppo timidi o troppo ottimisti, poiché ormai il processo di astrazione ha divorato tutta la realtà e lo spettacolo è oggi ancora più spettacolare e totalitario di quanto si immaginasse prima, spingendo i suoi crimini fino all'"assassinio della realtà" stessa. I discorsi "postmoderni" che si sono irradiati a partire dalla Francia degli anni settanta hanno attinto abbondantemente alle idee situazioniste, naturalmente senza indicare una fonte così poco onorevole, pur non ignorandola per niente, già per via di certi tragitti personali. Come disse già nel 1964 il pittore danese Asger Jorn, uno dei fondatori dell'Internazionale situazionista: "Debord non è conosciuto male; egli è conosciuto come il male". Non si trattava però solo dell'abituale self-service intellettuale, ma anche di una vera e propria strategia per neutralizzare una teoria pericolosa tramite la sua esagerazione assurda. Andando apparentemente ancora un po' oltre la teoria situazionista, in verità i postmoderni l'hanno capovolta nel suo contrario. Non a caso, il teorico postmoderno più visibilmente influenzato dai situazionisti, Jean Baudrillard, ha affermato in un'intervista del 1989 che la radicalità situazionista sia rimasta viva in lui: egli pretende dunque di essere ultra-sovversivo e allo stesso tempo predica la fine di ogni critica e la gioiosa integrazione nel presente. Questa combinazione veniva naturalmente incontro ai bisogni psicologici della generazione del Sessantotto, a meno che non assomigli all'atteggiamento di coloro che nella tarda antichità veneravano per precauzione diverse religioni.
Confondendo lo spettacolo, una formazione storico-sociale ben precisa, con il problema filosofico atemporale della rappresentazione in quanto tale, si stravolgono, senza averne l'aria, tutti i termini del problema. In Debord, la realtà e il valore di uso costituiscono sempre il limite contro cui cozzano i deliri dello spettacolo; passare di qua a dire che la realtà e il valore di uso non ci sono più, non rappresenta un semplice passo avanti sulla stessa strada, ma un capovolgimento parodistico.

A che serve il postmoderno?

Criticare le teorie post-moderne risulta difficile a causa del loro carattere auto-immunizzante che rende ogni discussione impossibile e trasforma le loro affermazioni in verità di fede che possono solo essere credute oppure no. Ma si può dire qualcosa sulla loro funzione, sul cui bono, e osservare così la sottigliezza metafisica dispiegata dalla merce per difendersi. Leggendo i testi postmoderni si nota che, benché non vi si citino quasi mai i situazionisti, il termine di "spettacolo" o "società dello spettacolo" vi ricorre spesso, e che tali testi, nel 1977 come nel 1997, danno assai spesso l'impressione di non essere altro che una risposta alle tesi di Debord. Il postmoderno riprende da lui le descrizioni di un progressivo allontanamento dello spettacolo dalla realtà, ma le riprende su un piano puramente fenomenologico, senza mai cercare una causa diversa da una presupposta spinta irresistibile e irrazionale degli spettatori verso lo spettacolo. Anzi, qualsiasi ricerca di una spiegazione viene esplicitamente demonizzata. Quando leggiamo che "l'astrazione dello «spettacolo», anche nei situazionisti, non era mai senza appello. Mentre la realizzazione incondizionale è essa sì senza appello [...] Lo spettacolo lasciava ancora posto per una coscienza critica e una demistificazione [...] [mentre] oggi siamo al di là di ogni disalienazione", allora è chiaro a che servono i riferimenti postmoderni allo spettacolo: ad annunciare l'inutilità di ogni resistenza allo spettacolo.
Presentata pomposamente come una scomoda verità, anzi come una terribile rivelazione, questa presunta sparizione della realtà è quanto ci possa essere di più rassicurante in un'epoca di crisi. Quali erano le esperienze fondamentali degli anni ottanta e novanta, di cui ci si può aspettare che esse si ritroveranno, in modo critico oppure no, nel pensiero? Che cosa è stato all'origine di un pensiero apertamente centrato su un concetto positivo di "simulazione"? In campo economico, si è assistito a un'espansione del capitale creditizio e finanziario, cioè del "capitale fittizio" (Marx), in una misura assolutamente inedita, mentre l'economia reale segnò il passo nel migliore dei casi, e in molti paesi cominciò a retrocedere. Come sappiamo ormai, i boom degli anni ottanta e novanta sono stati puramente speculativi, finanziati con l'indebitamento e rinfuocati da un enorme massa di capitali non più capaci di essere impiegati produttivamente, il che è già di per sé un'indizio di crisi. Il clima euforico soprattutto degli anni ottanta si basava su una bolla di sapone, su un millantato credito. In una parola, il boom e l'euforia erano simulati. Che le persone ne fossero consapevoli o no, il carattere fittizio della base economica della società si è trasmesso anche a tutte le espressioni sociali di quell'epoca. La "de-realizzazione" tanto evocata nel pensiero postmoderno aveva dunque una "base" ben "reale". Quando le migliaia di miliardi di dollari di capitale speculativo "parcheggiate" nei mercati finanziari, cioè tutto il capitale fittizio, simulato, si riverserà nell'economia "reale", si vedrà che il denaro speculativo era meno il risultato di un'era culturale della virtualità (semmai viceversa), quanto piuttosto una fuga disperata in avanti di un'economia allo sbando.

Don Ferrante e il postmoderno

Che non esista alcuna sostanza e che si possa vivere in eterno nel regno della simulazione, ecco la speranza di tutti i padroni del mondo attuale, e non solo dei padroni. Quando diventa evidente la estrema caducità della base della propria vita individuale e collettiva, quando la realtà si dimostra in tutta la sua pericolosità non più allontanabile, ma allo stesso tempo ancora non è arrivata a essere percepibile fin in fondo, quando brucia la casa del vicino immediato, ma la propria si è giusto un po' scaldata, allora è il momento delle teorie che insegnano che tutto è relativo e niente è certo, che nessuna perdita è irreparabile perché per tutto è già pronta la copia, la protesi, il succedaneo - che però non possono neanche venir considerati tali, poiché l'originale non esiste - e che tutto è interscambiabile, combinabile, smontabile. Don Ferrante era il primo rappresentante del pensiero postmoderno, e i crolli a catena delle "economie emergenti" negli ultimi tempi ne costituiscono la pietra tombale, così come dell'economia neoliberista.

Un'arma senza percussore

Il fascino perverso della merce

Come si vede, non è facile sottrarsi al fascino perverso della merce. La critica del feticismo della merce è l'unica strada oggi percorribile per una comprensione globale della società, e per fortuna una tale critica si sta già formando. Ne fa parte l'interesse sempre crescente per le teorie dei situazionisti, e per quelle di Debord in particolare, tanto quanto il lavoro della rivista Krisis e l'eco che comincia a trovare ormai anche in Italia. Per lungo tempo, la merce ci ha ingannato, presentandosi come "una cosa triviale, ovvia". Ma la sua innocenza è passata, perché sappiamo ormai che essa è "una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici". E tutte le preghiere dei suoi preti saranno incapaci di riscattarla dalla sua gogna.

Nessun commento: