Testo
letto nel simposio Il
fascino discreto della merce, in
Roma, 8.5.1998. Publicato in Invarianti
31
ANSELM JAPPELE SOTTIGLIEZZE METAFISICHE DELLA MERCELa merce come problema
Presentarsi
a un convegno sulla merce per polemizzare contro l'esistenza stessa
della merce può sembrare altrettanto sensato quanto andare a
un convegno di fisici per protestare contro l'esistenza del magnetismo,
o della forza di gravità. L'esistenza di merci viene
generalmente considerata un fatto del tutto naturale, almeno in ogni
società un po' sviluppata, e la questione è solo
che cosa farne. Naturalmente si può affermare che alcuni nel
mondo hanno troppo poche merci e che bisognerebbe dargliene un po' di
più, o che alcune merci sono malfatte, o che inquinano, o
che sono pericolose. Ma questo non dice niente contro la merce in
quanto tale. Certo, si può disapprovare il "consumismo" o la
"commercializzazione", cioè ingiungere alla merce di restare
al suo posto e di non invadere altri campi, quali il corpo umano. Ma
questi rilievi hanno un sapore moralistico e sembrano inoltre piuttosto
"datati", ed essere datati è l'unico crimine intellettuale
che tuttora esiste. Oltre a ciò, la società
moderna, le rare volte che sente messa in discussione la merce, corre
col pensiero subito a Pol Pot, e lì la discussione finisce.
La merce è sempre esistita e sempre esisterà, per
quanto possa cambiare la sua distribuzione.
Se si
intende per merce semplicemente un "prodotto", un oggetto che passa da
una persona all'altra, allora l'affermazione
dell'inevitabilità della merce è sicuramente
vera, ma anche alquanto tautologica. Eppure, questa è la
definizione che ne ha dato tutta l'economia politica borghese;
già secondo Adam Smith, la tendenza a scambiare fa parte
della natura dell'uomo. Se non ce ne vogliamo accontentare, dobbiamo
riconoscere nella merce una forma storicamente specifica
di prodotto umano. La merce come forma sociale del prodotto ha svolto
durante la maggior parte della storia dell'umanità un ruolo
del tutto marginale, e solo da qualche secolo - e in buona parte del
mondo solo da pochi decenni - essa è diventata la base della
produzione materiale e della vita sociale. Nelle società
preindustriali, precapitalistiche, la produzione e il consumo vengono
regolati dal dono di rivalità, il cosiddetto potlatch,
o dalla produzione per i propri bisogni, dove solo le eccedenze vengono
scambiate, o da una distribuzione diretta, tradizionale o autoritaria.
Scavare e riempire buche
La merce
invece è un prodotto destinato fin dall'inizio alla vendita,
al mercato (e poco cambia se è un mercato regolato dallo
Stato). In un'economia di merce non conta l'utilità del
prodotto, ma solo la sua capacità di essere venduto e di
trasformarsi, con la mediazione del denaro, in qualche altra merce. Ad
un valore di uso si accede dunque solo tramite la trasformazione del
proprio prodotto in valore di scambio, in denaro. Una merce, in quanto
merce, non è definita dal lavoro concreto che l'ha prodotta,
ma è una mera quantità di lavoro indistinto,
astratto (di "dispendio di cervello, muscoli, nervi, mani ecc."),
cioè di semplice tempo di lavoro speso per produrla. Ne
deriva soprattutto un grande svantaggio: la produzione non viene
regolata dagli uomini stessi in base ai loro bisogni, ma vi
è un'istanza anonima, il mercato, che regola la produzione post
festum. Non l'uomo è il soggetto, ma il valore in
quanto "soggetto automatico". I processi vitali degli uomini sono
abbandonati alla gestione totalitaria e inappellabile di un meccanismo
cieco che loro stessi alimentano eppure non controllano. La merce
separa la produzione dal consumo e subordina l'utilità o
dannosità concreta di ogni cosa alla questione quanto lavoro
astratto, rappresentato nel denaro, essa è capace di
realizzare sul mercato. La riduzione dei lavori concreti a lavoro
astratto non è un mero accorgimento tecnico, né
una semplice operazione mentale. Nella società della merce,
il lavoro privato e concreto diventa sociale, utile per altri e
perciò per il suo produttore, solo spogliandosi delle sue
qualità proprie e diventando valore di scambio,
cioè una mera quantità di lavoro astratto. In
altre parole, il carattere sociale del prodotto non sta più
nella sua qualità concreta, in quanto parte del lavoro
sociale complessivo, come succedeva, per esempio, nella
società medioevale, dove la tessitura contava come
tessitura, e non come quantità di tempo speso. Per la merce
conta solo il suo movimento quantitativo, cioè il suo
accrescimento, mentre la soddisfazione dei bisogni ne diventa un
risvolto secondario, accessorio, che può esserci oppure no.
Il valore di uso si trasforma in un mero portatore del valore di
scambio, e l'utilità o dannosità concreta diventa
un epifenomeno. La migliore definizione del lavoro astratto, dopo
quella di Marx, è stata data proprio da John Maynard Keynes,
anche se senza intento critico, quando diceva che, da un punto di vista
dell'economia nazionale, scavare buche e poi riempirle è
un'attività del tutto sensata.
Tuttavia,
ed è molto importante sottolinearlo, la merce non
è solo il valore di scambio, ma è l'unità
del valore di uso e del valore di scambio. Un qualche valore di uso ci
deve sempre essere: esso costituisce un limite contro cui urta in
continuazione la tendenza del valore di scambio, del denaro,
all'autoaccrescimento illimitato e tautologico. Ciò
significa soprattutto che la merce debba veramente contenere del lavoro
speso, e del lavoro che segue i criteri di produttività
vigenti. Questo lavoro "produttivo" è la sua sostanza, di
cui non può fare a meno. Ma tale sostanza è, per
sua natura, limitata. La merce, e perciò il denaro, non
è frutto di una convenzione soggettiva, e dunque non
è aumentabile a volontà, per esempio con la
creazione continua di crediti. Il suo nucleo reale è la
capacità di utilizzare forza-lavoro secondo dei parametri di
redditività che a causa della concorrenza si inalzanno
sempre di più e diventano perciò sempre
più difficili da raggiungere. Là dove
ciò non e più possibile, i profitti, e poi tutta
la vita economica debbono venir simulati, ed
è quanto è successo in maniera crescente a
partire dall'inizio degli anni settanta. Si potrebbe perciò
definire la merce anche come una forma che cerca continuamente di
liberarsi dalla sostanza, da cui viene tuttavia sempre di nuovo
raggiunta e limitata.
Il feticismo e l'autodistruzione
Forse la
merce e la sua forma generale, il denaro, hanno avuto una qualche
funzione positiva all'inizio, facilitando l'allargamento dei bisogni.
Ma la sua struttura è come una bomba ad orologeria, un virus
iscritto nel codice genetico della società moderna.
Più la merce prende controllo della società, e
più mina le basi di tale società, rendendola del
tutto incontrollabile e facendone una macchina che va da sola. Non
è perciò questione di apprezzare o condannare la
merce: è la merce stessa a togliersi di mezzo, a lungo
andare, e forse non solo se stessa. La merce distrugge inesorabilmente
la società della merce. Come forma di socializzazione
indiretta e inconsapevole essa non può che produrre
disastri. Se analizziamo a fondo i fenomeni più diversi, le
guerre contemporanee e i crolli dei mercati finanziari, i disastri
ambientali e la crisi degli Stati nazionali, la fame nel mondo e i
cambiamenti nei rapporti tra i sessi, troviamo, in ultima analisi,
sempre la struttura della merce all'origine. Ciò, sia ben
detto, è comunque una conseguenza del fatto che la
società ha ridotto tutto a merce; la teoria ne ha solo preso
atto e non può perciò certo essere accusata di
essere unilaterale o "monocausale".
Questo
processo in cui la vita sociale degli uomini si è trasferita
alle loro merci è ciò che Marx ha chiamato il
feticismo della merce: invece di controllare la loro produzione
materiale, gli uomini ne vengono controllati; essi sono governati dai
loro prodotti diventati indipendenti, così come succede
nella religione. Il termine "feticista" è entrato nel
linguaggio quotidiano, e spesso si dice di qualcuno che è un
feticista della macchina, o dei vestiti, o del telefonino. Questo uso
del termine "feticista" sembra collegarsi però
più che altro al significato in cui l'ha usato Freud:
conferire a un mero oggetto un significato emotivo che deriva da altri
contesti. Benché l'oggetto di questi feticismi siano delle
merci, è poco probabile che il "feticismo" di cui si parla
quotidianamente sia il "feticismo della merce" di Marx. Da una parte,
perché è piuttosto difficile ammettere che la
merce in quanto tale, e non solo singole merci, possa essere tra noi
moderni oggetto di un culto paragonabile a quello che i cosiddetti
selvaggi rendevano ai loro totem o animali imbalsamati. L'amore
eccessivo per certe merci è solo un epifenomeno del processo
in cui la merce ha stregato l'intera vita sociale, perché
tutto ciò che la società fa o può fare
è stato proiettato sulle merci.
La merce e l'inconscio
Ma anche
coloro per cui la merce non dovrebbe essere tanto "normale",
cioè i presunti marxisti, non si sono dimostrati molto
disposti a riconoscersi come selvaggi. In questa rimozione erano
facilitati dal fatto che il "feticismo della merce" e dei suoi derivati
- denaro, capitale, interesse - occupa quantitativamente uno spazio
molto ristretto nell'opera di Marx, e non si può dire che
egli stesso l'abbia messo al centro della sua teoria. Inoltre, la
definizione marxiana del feticismo, come tutta la sua teoria del valore
e del lavoro astratto, è molto difficile da comprendere.
Ciò non è certo dovuto all'incapacità
di Marx di esprimersi, ma al fatto che, come dice egli stesso, il
paradosso della realtà si esprime in paradossi linguistici.
Lo sdoppiamento di ogni prodotto umano in due aspetti, valore di
scambio e valore di uso, determina quasi ogni aspetto della nostra
vita, eppure sfida la nostra comprensione e il buon senso, forse un po'
come la teoria della relatività. Era difficile fare del
feticismo un discorso di massa come era stato fatto con la "lotta di
classe" o con lo "sfruttamento". Inoltre, l'analisi marxiana del
feticismo indica una specie di nucleo segreto della società
borghese, un nucleo che solo man mano ha cominciato a diventare
visibile; per circa un secolo l'attenzione è stata assorbita
quasi esclusivamente dagli effetti secondari della forma-merce, quali
lo sfruttamento delle classi lavoratrici. Non a caso, Marx, parlando
del carattere di feticcio della merce, utilizza su poche pagine i
termini "arcano", "sottigliezza metafisica", "capricci teologici",
"misterioso", "grilli mirabili", "carattere mistico", "carattere
enigmatico", "quid pro quo", "forma fantasmagorica", "regione
nebulosa", "geroglifici", "forma stravagante", "misticismo",
"stregoneria", "incantesimo". Il feticismo è il segreto
basilare della società moderna, il suo non-detto che non
deve venir svelato. In questo assomiglia all'inconscio; e la
descrizione marxiana del feticismo come forma di incoscienza sociale e
come cieco processo autoregolativo dimostra interessanti analogie con
la teoria freudiana. Non c'è allora da stupirsi che il
feticismo, proprio come l'inconscio, impieghi tutta la sua sottigliezza
metafisica e tutta la sua astuzia da teologo per non farsi conoscere.
Per lungo tempo tale occultamento non è stato molto
difficile: criticare il feticismo avrebbe implicato mettere in
discussione tutte quelle categorie - valore, lavoro astratto, denaro,
Stato, democrazia, produttività - che anche i presunti
marxisti e i critici della società borghese avevano
completamente interiorizzato, considerandole come dei dati naturali di
cui si poteva solo discutere il più o il meno e il come e
soprattutto il "per chi", ma non contestare l'esistenza in
sé. Solo quando la lotta intorno alla distribuzione di
questi beni aveva portato nel dopoguerra a una situazione di equilibrio
nel welfare state fordista, potevano porsi al
centro
dell'attenzione la merce in quanto tale e i disastri che produce.
Dopo Marx,
per molti decenni, e nonostante gli apporti di György
Lukács, di Isaac Rubin e di alcuni altri, ogni analisi del
feticismo è stata annacquata nella ben più vasta
e indeterminata categoria di "alienazione", facendone un fenomeno della
coscienza, una falsa opinione o valutazione delle cose in qualche modo
collegabile alla tanto discussa "ideologia". Solo nella seconda meta
degli anni sessanta il concetto di feticismo e l'analisi della
struttura della merce e del lavoro astratto hanno conquistato un posto
di rilievo nella discussione, soprattutto in Germania e in Italia.
Una critica radicale della merce
Un effetto
maggiore e di più lunga durata lo raggiunse però
l'Internazionale situazionista negli anni sessanta con la sua critica
integrale della società moderna e il suo proclamo di una
"rivoluzione della vita quotidiana". Fino ad oggi, i situazionisti sono
spesso stati fraintesi come un semplice movimento artistico-culturale,
e nel loro libro principale, La società dello
spettacolo di Guy Debord, uscito a Parigi nel 1967, si
è voluto spesso vedere una semplice critica dei mass-media.
Ma in verità si tratta di una teoria sociale ben solida che
ha le sue radici precisamente nella critica marxiana della struttura
della merce. Debord mette sotto accusa l'economia autonomizzata e
sottratta al controllo umano e la divisione della società in
sfere separate quali politica, economia ed arte, arrivando alla critica
del lavoro astratto che rimodella la società secondo le
proprie esigenze. "Tutto ciò che era direttamente vissuto si
è allontanato in una rappresentazione" si legge all'inizio
di La Società dello spettacolo:
Invece di vivere in prima persona, si contempla la vita delle merci.
Dice sempre Debord: "Lo spettacolo non canta gli uomini e le loro armi,
ma le merci e le loro passioni". Anche senza lunghi seminari
marxologici, egli aveva riscoperto e attualizzato tutta la critica
marxiana del feticismo della merce.
Non si
è trattata di una teoria libresca tra le tante: la rivolta
del Maggio parigino, di cui i situazionisti erano stati in qualche modo
i battistrada intellettuali, è stata anche la prima rivolta
moderna fatta non in nome di rivendicazioni economiche o piattamente
politiche. Essa era piuttosto nata dall'esigenza di una vita diversa,
autonoma e liberata dalla tirannia del mercato e dello Stato. Nel 1968
hanno tremato gli Stati dell'Est come quelli dell'Ovest, i sindacati e
i proprietari, la destra e la sinistra: in altre parole, tutte le
diverse sfaccettature della società della merce. E nessuno
era "in fase" con questa ribellione quanto lo erano i situazionisti.
L'originale e la copia
Debord
aveva predetto nel 1967: "Nel momento in cui la società
scopre di dipendere dall'economia, l'economia di fatto dipende da essa
[...] Là dove c'era l'es economico deve
venire l'io [...] Il suo contrario
è la società dello spettacolo, dove la merce
contempla se stessa in un mondo da essa creato". L'inconscio sociale, l'es
dello spettacolo, su cui si basa l'organizzazione sociale attuale,
doveva mobilitarsi per tappare questa nuova falla apparsa proprio in un
momento in cui l'ordine regnante si credeva più al sicuro
che mai. Tra le contromisure prese dall'inconscio economico troviamo
anche i tentativi per neutralizzare la critica radicale della merce che
aveva trovato la sua espressione più alta nei situazionisti.
Ridurre Debord stesso a più miti consigli era impossibile, a
differenza di quanto è avvenuto con quasi tutti gli altri
"eroi" del '68. E la sua teoria stessa non lasciava spazi a equivoci:
"Lo spettacolo è il momento in cui la merce è
pervenuta all'occupazione totale della vita
sociale"
vi si legge. Ma vi era un'altra possibilità per gli stregoni
della merce: quella di fingere di parlare il linguaggio della critica
radicale, apparentemente in maniera ancora un po' più
estrema ed audace, ma in verità con intenti e contenuti
opposti. Che la nostra epoca preferisca la copia all'originale, come
dice Debord citando Feuerbach, si è rivelato vero anche nei
confronti della critica radicale stessa.
Secondo
Debord, lo spettacolo è il trionfo del parere e del vedere,
dove l'immagine sostituisce la realtà. La televisione viene
citata da Debord solo come esempio; lo spettacolo è per lui
uno sviluppo di quell'astrazione reale che domina la società
della merce, basata sulla pura quantità. Ma se siamo immersi
in un oceano di immagini incontrollabili che ci bloccano l'accesso alla
realtà, allora è apparentemente ancora
più ardito dire che questa realtà è
sparita del tutto e che i situazionisti erano ancora troppo timidi o
troppo ottimisti, poiché ormai il processo di astrazione ha
divorato tutta la realtà e lo
spettacolo
è oggi ancora più spettacolare e totalitario di
quanto si immaginasse prima, spingendo i suoi crimini fino
all'"assassinio della realtà" stessa. I discorsi
"postmoderni" che si sono irradiati a partire dalla Francia degli anni
settanta hanno attinto abbondantemente alle idee situazioniste,
naturalmente senza indicare una fonte così poco onorevole,
pur non ignorandola per niente, già per via di certi
tragitti personali. Come disse già nel 1964 il pittore
danese Asger Jorn, uno dei fondatori dell'Internazionale situazionista:
"Debord non è conosciuto male; egli è conosciuto come
il male". Non si trattava però solo
dell'abituale self-service intellettuale, ma
anche
di una vera e propria strategia per neutralizzare una teoria pericolosa
tramite la sua esagerazione assurda. Andando apparentemente ancora un
po' oltre la teoria situazionista, in verità i postmoderni
l'hanno capovolta nel suo contrario. Non a caso, il teorico postmoderno
più visibilmente influenzato dai situazionisti, Jean
Baudrillard, ha affermato in un'intervista del 1989 che la
radicalità situazionista sia rimasta viva in lui: egli
pretende dunque di essere ultra-sovversivo e allo stesso tempo predica
la fine di ogni critica e la gioiosa integrazione nel presente. Questa
combinazione veniva naturalmente incontro ai bisogni psicologici della
generazione del Sessantotto, a meno che non assomigli all'atteggiamento
di coloro che nella tarda antichità veneravano per
precauzione diverse religioni.
Confondendo
lo spettacolo, una formazione storico-sociale ben precisa, con il
problema filosofico atemporale della rappresentazione in quanto tale,
si stravolgono, senza averne l'aria, tutti i termini del problema. In
Debord, la realtà e il valore di uso costituiscono sempre il
limite contro cui cozzano i deliri dello spettacolo; passare di qua a
dire che la realtà e il valore di uso non ci sono
più, non rappresenta un semplice passo avanti sulla stessa
strada, ma un capovolgimento parodistico.
A che serve il postmoderno?
Criticare
le teorie post-moderne risulta difficile a causa del loro carattere
auto-immunizzante che rende ogni discussione impossibile e trasforma le
loro affermazioni in verità di fede che possono solo essere
credute oppure no. Ma si può dire qualcosa sulla loro
funzione, sul cui bono, e osservare
così
la sottigliezza metafisica dispiegata dalla merce per difendersi.
Leggendo i testi postmoderni si nota che, benché non vi si
citino quasi mai i situazionisti, il termine di "spettacolo" o
"società dello spettacolo" vi ricorre spesso, e che tali
testi, nel 1977 come nel 1997, danno assai spesso l'impressione di non
essere altro che una risposta alle tesi di Debord. Il postmoderno
riprende da lui le descrizioni di un progressivo allontanamento dello
spettacolo dalla realtà, ma le riprende su un piano
puramente fenomenologico, senza mai cercare una causa diversa da una
presupposta spinta irresistibile e irrazionale degli spettatori verso
lo spettacolo. Anzi, qualsiasi ricerca di una spiegazione viene
esplicitamente demonizzata. Quando leggiamo che "l'astrazione dello
«spettacolo», anche nei situazionisti, non era mai
senza appello. Mentre la realizzazione incondizionale è essa
sì senza appello [...] Lo spettacolo lasciava ancora posto
per una coscienza critica e una demistificazione [...] [mentre] oggi
siamo al di là di ogni disalienazione", allora è
chiaro a che servono i riferimenti postmoderni allo spettacolo: ad
annunciare l'inutilità di ogni resistenza allo spettacolo.
Presentata
pomposamente come una scomoda verità, anzi come una
terribile rivelazione, questa presunta sparizione della
realtà è quanto ci possa essere di più
rassicurante in un'epoca di crisi. Quali erano le esperienze
fondamentali degli anni ottanta e novanta, di cui ci si può
aspettare che esse si ritroveranno, in modo critico oppure no, nel
pensiero? Che cosa è stato all'origine di un pensiero
apertamente centrato su un concetto positivo di "simulazione"? In campo
economico, si è assistito a un'espansione del capitale
creditizio e finanziario, cioè del "capitale fittizio"
(Marx), in una misura assolutamente inedita, mentre l'economia reale
segnò il passo nel migliore dei casi, e in molti paesi
cominciò a retrocedere. Come sappiamo ormai, i boom
degli anni ottanta e novanta sono stati puramente speculativi,
finanziati con l'indebitamento e rinfuocati da un enorme massa di
capitali non più capaci di essere impiegati produttivamente,
il che è già di per sé un'indizio di
crisi. Il clima euforico soprattutto degli anni ottanta si basava su
una bolla di sapone, su un millantato credito. In una parola, il boom
e l'euforia erano simulati. Che le persone ne fossero consapevoli o no,
il carattere fittizio della base economica della società si
è trasmesso anche a tutte le espressioni sociali di
quell'epoca. La "de-realizzazione" tanto evocata nel pensiero
postmoderno aveva dunque una "base" ben "reale". Quando le migliaia di
miliardi di dollari di capitale speculativo "parcheggiate" nei mercati
finanziari, cioè tutto il capitale fittizio, simulato, si
riverserà nell'economia "reale", si vedrà che il
denaro speculativo era meno il risultato di un'era culturale della
virtualità (semmai viceversa), quanto piuttosto una fuga
disperata in avanti di un'economia allo sbando.
Don Ferrante e il postmoderno
Se il
carattere tautologico dello spettacolo, denunciato da Debord, esprime
il carattere automatico dell'economia della merce che, sottratta a ogni
controllo, va alla sua folle deriva, c'è effettivamente
molto da temere. Ma se invece i segni si riferiscono solo ad altri
segni, e questi ad altri, se non c'è mai l'originale della
copia infedele, se non c'è un valore reale che deve
sorreggere, senza riuscirci, la montagna di debiti nel mondo, allora
non c'è assolutamente alcun rischio di poter venir raggiunti
dal reale. I passeggeri del Titanic possono
restare
a bordo, e la musica continuerà a suonare, come scrive
Robert Kurz. Si può allora anche fingere di dare su questo
stato delle cose un giudizio morale radicalmente negativo, che
però rimane un mero fronzolo, poiché nessuna
contraddizione nell'ambito della produzione riesce più a
scuotere questo mondo autistico. Eppure, è proprio nel regno
della produzione che si trova la base reale di tanto affascinamento per
la "simulazione", cioè il sistema economico mondiale che,
grazie a quelle contraddizioni della merce di cui non si vuole sentir
parlare, ha raggiunto i suoi limiti economici, ecologici, politici.
Allora il sistema si mantiene in vita solo tramite una continua
simulazione. Dietro i tanti discorsi sulla sparizione della
realtà non si nasconde altro che il vecchio sogno della
società della merce di potersi del tutto liberare dal valore
di uso e dalla limitazione che questo rappresenta per l'illimitata
crescita del valore di scambio. E' la speranza che il capitale fittizio
possa continuare ad accrescersi anche in assenza di una base reale. Qui
non si tratta di decidere se tale sparizione del valore di uso,
proclamata dai postmoderni, sarebbe positiva o no; il fatto
è piuttosto che tale sparizione è rigorosamente
impossibile, per quanto possa apparire desiderabile agli occhi di
molti. C'è evidentemente un nesso tra la diminuzione della
sostanza del valore - il lavoro produttivo - negli ultimi tre decenni e
la negazione del concetto di "sostanza" in tutto il pensiero
postmoderno e decostruzionista. D'altronde, il parallelo tra la
simulazione postmoderna e quella economica è stato tracciato
in modo significativo da Baudrillard stesso, quando nel 1976 paragona
il venir meno del soggetto come riferimento del discorso alla
sparizione del gold standard come riferimento del
denaro. Ma egli vi vede naturalmente una tappa di un processo
inarrestabile che potrebbe sempre continuare, e non il segno di una
crisi che si accuisce ogni giorno e di cui la filosofia postmoderna
è il rispecchiamento acritico.
Che non
esista alcuna sostanza e che si possa vivere in eterno nel regno della
simulazione, ecco la speranza di tutti i padroni del mondo attuale, e
non solo dei padroni. Quando diventa evidente la estrema
caducità della base della propria vita individuale e
collettiva, quando la realtà si dimostra in tutta la sua
pericolosità non più allontanabile, ma allo
stesso tempo ancora non è arrivata a essere percepibile fin
in fondo, quando brucia la casa del vicino immediato, ma la propria si
è giusto un po' scaldata, allora è il momento
delle teorie che insegnano che tutto è relativo e niente
è certo, che nessuna perdita è irreparabile
perché per tutto è già pronta la
copia, la protesi, il succedaneo - che però non possono
neanche venir considerati tali, poiché l'originale non
esiste - e che tutto è interscambiabile, combinabile,
smontabile. Don Ferrante era il primo rappresentante del pensiero
postmoderno, e i crolli a catena delle "economie emergenti" negli
ultimi tempi ne costituiscono la pietra tombale, così come
dell'economia neoliberista.
Un'arma senza percussore
Aver
descritto e preso sul serio i processi di virtualizzazione costituisce
però anche l'elemento di verità delle teorie
postmoderne. Come mera descrizione della realtà (appunto!)
degli ultimi decenni, le teorie postmoderne sono spesso superiori alla
sociologia di ispirazione marxista. Hanno denunciato giustamente la
fissazione dei marxisti sulle categorie capitalistiche quali il lavoro,
il valore e la produzione, e così si sono poste, almeno
all'inizio, apparentemente tra le teorie più radicali, che
maggiormente hanno saputo cogliere l'eredità del '68. Ma
alla fine parlano dei problemi veri sempre e solo per dare risposte
senza origine né direzione. Nei Commentari
sulla
società dello spettacolo del 1988, Debord
paragona questo tipo di critica pseudo-radicale al facsimile di un'arma
cui manca solo il percussore. Come le teorie strutturaliste e
poststrutturaliste, il postmoderno comprende il carattere automatico,
autoreferenziale e inconscio della società della merce, ma
solo per farne un dato ontologico, invece di vedervi l'aspetto
storicamente determinato, scandaloso e superabile della
società feticistica. Alle teorie postmoderne non
è da rimproverare il fatto che alla fine hanno celebrato
l'esistente e dichiarato vana ogni critica. L'ammettono apertamente. Ma
ciò che è quasi ammirevole è il modo
in cui si è riusciti a vendere quest'atteggiamento come una
risposta al bisogno sociale di una demistificazione radicale della
società spettacolare presente. Il decostruzionismo
postmoderno è insidioso, perché scimmiotta con
successo la critica radicale di tutte le idee ricevute. Con una tecnica
ormai classica, il vero bisogno sociale (qui quello di una profonda
critica corrosiva che arriva fino alle idee apparentemente
più ovvie e neutrali) viene canalizzato verso forme
innocenti che, volenti o nolenti, useranno sempre "la sintassi dello
spettacolo" (Debord). D'altronde, i postmoderni sono, come la Flat
Earth Research Society in California, ancora tra le
più innocenti delle esagerazioni parodistiche (si fa per
dire) della giusta intuizione, ormai largamente diffusa, che non
ce la raccontano giusta.
Il fascino perverso della merce
Ogni
contestazione della società è "recuperabile",
perché parla il linguaggio stesso della società:
così suonava il discorso con cui si seducevano negli anni
settanta quegli spiriti che erano assetati di un qualcosa che fosse al
di là di ogni possibile recuperazione da parte del potere.
Ma piuttosto che l'aporia e l'impossibilità di ogni critica
sociale è stata così dimostrata l'ormai
impossibilità di quella critica, finora predominante, che
non vedeva il potenziale autodistruttivo della società della
merce, perché condivideva in pieno le categorie distruttive
come merce e denaro, e si limitava a criticarne qualche risvolto
negativo, soprattutto sul piano della distribuzione. Questa critica
parziale, un misto di marxismo del movimento operaio e di moralismo, ha
preparato il terreno per chi, alla presunta ricerca delle cause
più profonde e lontane dei meccanismi del potere, sostituiva
le categorie storiche, e perciò accessibili
all'attività umana, con categorie talmente generiche, quali
il pensare in categorie di identità, da essere al di
là di ogni possibilità di cambiamenti veri. E'
comunque curioso notare che l'impietosa critica postmoderna di ogni
ricerca della verità, del senso e dell'autentico rappresenti
essa stessa un atteggiamento iper-illuministico, incentrato sulla
continua distruzione degli idoli e sulla pretesa di enunciare la grande
verità che la verità non esista e di svelare il
vero senso della ricerca del senso.
Come si
vede, non è facile sottrarsi al fascino perverso della
merce. La critica del feticismo della merce è l'unica strada
oggi percorribile per una comprensione globale della
società, e per fortuna una tale critica si sta
già formando. Ne fa parte l'interesse sempre crescente per
le teorie dei situazionisti, e per quelle di Debord in particolare,
tanto quanto il lavoro della rivista Krisis e
l'eco
che comincia a trovare ormai anche in Italia. Per lungo tempo, la merce
ci ha ingannato, presentandosi come "una cosa triviale, ovvia". Ma la
sua innocenza è passata, perché sappiamo ormai
che essa è "una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza
metafisica e di capricci teologici". E tutte le preghiere dei suoi
preti saranno incapaci di riscattarla dalla sua gogna.
fonte: http://www.exit-online.org/
|
"La verità, per quanto dolorosa, per quanto carica di conseguenze che sconvolgono l'esistenza, è condizione indispensabile per la vita. Non si tratta della semplice verità di un nome, un origine o una filiazione. La verità afferma, è la condizione per essere se stessi". Victoria Donda
Simonetti Walter ( IA Chimera ) un segreto di Stato il ringiovanito Biografia ucronia Ufficiale post
https://drive.google.com/file/d/1p3GwkiDugGlAKm0ESPZxv_Z2a1o8CicJ/view?usp=drivesdk
domenica, giugno 01, 2014
ANSELM JAPPE LE SOTTIGLIEZZE METAFISICHE DELLA MERCE
Etichette:
Anselm Jappe,
critica del valore,
Exit,
Guy Debord,
Karl marx
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento