E' possibile una società fondata sull'autonomia dei soggetti e non sul potere, l'eteronomia istituita?
L'immaginario
radicale permette di pensare questa progettualità che mira a portare
alla luce il potere istituito e che permette il riassorbimento del
politico nella politica (attività consapevole degli individui) e che
rende esplicita l'istituzione della società. Questa è, molto
sommariamente, la tesi dell'autore: sociologo, economista, psicanalista e
nel 1948 tra i fondatori della rivista Socialisme ou Barbarie. Tra le
sue opere: L'institution imaginaire de La societé (1975), Domaines de
l'homme (1986), L'immaginario capovolto (a cura di Eduardo Colombo,
1987), Gli incroci del labirinto (1988). Questo articolo è stato
pubblicato sulla Revue de Metaphysique et de Morale (1988) con il titolo
Pouvoir, politique, autonomie.
L'autodispiegamento
dell'immaginario radicale come si produce unicamente attraverso la
società e come storia (come socio-storico) all'interno delle due
dimensioni dell'istituente e dell'istituito.
L'istituzione,
nel senso fondante, è creazione originaria del campo socio-storico, del
collettivo anonimo che oltrepassa, in quanto eidos, tutte le possibili
produzioni degli individui o della soggettività. L'individuo (e gli
individui) è istituzione che si dà una volta per tutte e che si fa altra
in ogni società altra. Si tratta della questione ogni volta specifica
dell'imputazione e delle attribuzioni sociali normative senza le quali
non può esserci società. La soggettività come istanza riflessiva e
deliberante (come pensiero e volontà) è progetto socio-storico, la cui
origine (ripetutasi due volte, con modalità diverse, in Grecia e in
Europa occidentale) è databile e localizzabile. La monade psichica ne
costituisce il nucleo, irriducibile al socio-storico ma quasi del tutto
malleabile a condizione che l'istituzione soddisfi certi minimi
requisiti della psiche. Il principale tra questi: fornire alla psiche il
senso diurno; attraverso un'educazione che comincia dalla nascita e che
si rafforza lungo tutta la vita, forzare e indurre il singolo essere
umano a investire e a dare senso alle parti emerse dal magma delle
significazioni sociali immaginarie istituite ogni volta dalla società e
che tengono insieme la società stessa e le sue istituzioni particolari. è
chiaro che il piano socio-storico oltrepassa infinitamente qualunque
intersoggettivita. Questo termine è la foglia di fico che non arriva a
coprire la nudità del pensiero ereditato a questo riguardo, la sua
incapacità di concepire il sociostorico in quanto tale. La società non è
riducibile all'intersoggettività, non si tratta di un faccia-a-faccia
moltiplicato all'infinito; e il faccia-a-faccia, o il dos-à-dos, possono
avere luogo sempre e soltanto tra soggetti già socializzati. La
cooperazione tra soggetto, per esempio, non saprebbe mai creare il
linguaggio. E un assemblea di inconsci atomizzati sarebbe
inimmaginabilmente anche a Hyeronimus Bosch e peggio di un reparto di
furiosi di un vecchio ospedale psichiatrico. La società, in
quanto sempre già istituita, è autocreazione e capacità di
autoalterazione, opera dell'immaginario radicale istituente che si fa
società istituita e immaginario sociale ogni volta specifico.
L'individuo
in quanto tale non è dunque contingente rispetto alla società.
Concretamente, si da società solo attraverso l'incarnazione e
l'incorporazione, frammentaria e complementare, della sua istituzione e
dei suoi significati immaginari, e con gli individui viventi, parlanti,
agenti. La società ateniese non è altro che gli ateniesi (senza i quali
di essa resterebbero soltanto i residui di un paesaggio un tempo
abitato, frammenti di marmi e di vasi, inscrizioni indecifrabili, statue
ripescate da qualche parte nel Mediterraneo), ma gli ateniesi non sono
ateniesi che per il nomos della polis. In questo rapporto tra una
società istituita (che oltrepassa infinitamente la totalità degli
individui che la compongono, ma che non può essere società di fatto se
non in quanto realizzata negli individui che essa forma) e i suoi
individui, si può distinguere un tipo di relazione inedita e originale,
non pensabile secondo le categorie del tutto e delle parti, dell'insieme
e dei suoi elementi, dell'universale e del particolare. Creando se
stessa la società crea l'individuo e gli individui, all'interno dei
quali e attraverso i quali essa può esistere di fatto. Ma la società non
è una proprietà di composizione, né un tutto contenente qualcosa che è
altro da sé o che è più delle sue stesse parti. Anche perché queste
parti sono chiamate a essere, e a essere così, proprio da questo tutto
che non può essere se non attraverso di esse, in un tipo di relazione
originale che deve essere pensata per se stessa, a partire da se stessa,
come modello di se stessa. Del resto anche qui è necessario procedere
con cautela. Non si avanzerebbe di molto (come certi credono) dicendo:
la società fa gli individui che fanno la società. La società è
opera dell'immaginario istituente. Gli individui vengono fatti, nello
stesso tempo in cui fanno e rifanno, dalla società ogni volta istituita:
in un certo senso essi la sono. I due poli irriducibili sono, da una
parte, l'immaginario radicale istituente (cioè il campo di creazione
socio-storica) e, d'altra parte, la psiche individuale. Incominciando
dalla psiche la società fa ogni volta degli individui che, come tali,
non hanno altra possibilità che fare la stessa società che li ha fatti.
è solo per questo che l'immaginazione radicale della psiche riesce a
traspirare attraverso gli strati successivi della corazza sociale (
l'individuo che la ricopre e la penetra) fino al punto, limite
insondabile, in cui si verifica un'azione di ritorno da parte del
singolo essere umano sulla società. Notiamo anticipatamente che una tale
azione è rarissima, e in ogni caso impercettibile, in quasi tutte le
società nelle quali regna l'eteronomia istituita e nelle quali, a parte
il ventaglio di ruoli sociali predeterminati, gli unici modi di
manifestazione reperibile della psiche singolare sono la trasgressione e
la patologia. Diversamente succede in quelle rare società in cui la
rottura dell'eteronomia completa consente una vera e propria
individuazione dell'individuo, e in cui l'immaginazione radicale della
psiche singolare può al tempo stesso trovare, o creare, i modi sociali
di un'originale espressione pubblica e contribuire all'autoalterazione
del mondo sociale. Ed è ancora un'altra questione constatare che
nell'epoca delle alterazioni manifeste e marcate, società e individuo si
alterano insieme, e che queste due alterazioni hanno implicazioni
reciproche. L'istituzione e le significazioni immaginarie (che essa
porta con sé e che la animano) sono creatrici di un mondo (il mondo
della società data) che s'instaura fin dall'inizio nell'articolazione
tra un mondo naturale e sovrannaturale (o, più genericarnente,
extra-sociale) e un mondo umano propriamente detto. Questa articolazione
può andare dalla fusione inimaginaria quasi totale alla volontà di
separazione più esplicita, dalla sottomissione della società all'ordine
cosmico o a dio fino al delirio più estremo della dominazione e del
controllo della natura. Ma in tutti i casi sia la natura che la
sovra-natura sono ogni volta istituite in quanto tali e nelle
innumerevoli articolazioni del loro significato; articolazioni che
intrattengono a loro volta relazioni multiple incrociate con le
articolazioni della società stessa e che vengono instaurate ogni volta a
partire dall'istituzione di essa. La società si crea ogni volta come
eidos singolare (le influenze, le trasmissioni storiche, le continuità,
le similitudini, esistono certamente, e sono enormi quanto le questioni
che esse aprono, ma non modificano la situazione di principio e non sono
pertinenti alla presente discussione) e si dispiega in una molteplicità
di forme organizzatrici e organizzate. Essa si dispiega in primo luogo
come creazione di un tempo e di uno spazio appropriati, popolati da una
moltitudine di oggetti naturali, sovrannaturali e umani connessi tra
loro tramite le relazioni che la società pone ogni volta, e che sono
sempre rinforzati dalle proprietà immanenti dell'essere, come del mondo.
Ma queste proprietà vengono ricreate, estratte, scelte, filtrate, messe
in relazione e, soprattutto, dotate di senso attraverso l'istituzione e
i significati inimaginari della società data. Il discorso generale su
queste articolazioni, è quasi impossibile: ogni volta sono opera della
società considerata, pregna dei suoi significati immaginari. La
materialità, la concretezza di questa o di quella istituzione può
sembrare identica o molto simile in due società diverse, ma
l'immersione, ogni volta, di questa apparente identità materiale nel
magma altro dei significati altri, basta ad alterarla nella sua
effettività socio-storica (così troviamo una scrittura con lo stesso
alfabeto ad Atene nel 450 e a Costantinopoli nel 750). La constatazione
dell'esistenza di universali nelle diverse società (linguaggio,
produzione della vita materiale, organizzazione della vita sessuale e
della riproduzione, norme e valori) è lungi dalla possibilità di fondare
una qualsiasi teoria della società e della storia. Certo è innegabile,
all'interno di questi universali formali, l'esistenza di altri
universali più specifici; nello stesso modo è innegabile, per ciò che
riguarda il linguaggio, l'esistenza di certe leggi fonologiche. Ma più
precisamente come la scrittura con lo stesso alfabeto, queste leggi
riguardano solo il margine dell'essere della società che si dispiega
come senso e significato. Non appena si considerano gli universali
grammaticali o sintattici si incontrano delle questioni molto più
temibili. Per esempio, l'impresa di Noani Chomsky urta inevitabilmente
contro il seguente dilemma impossibile: o le forme grammaticali
(sintattiche) sono totalmente indifferenti al senso (enunciato di cui
qualsiasi traduttore conosce bene l'assurdità) oppure esse contengono a
partire dal primo linguaggio umano, e non si sa come, tutti i
significati che non emergeranno mai nella storia. Enunciato che genera
una metafisica pesante e naif della storia. Dire che in ogni linguaggio
deve essere possibile esprimere l'idea "John ha dato una mela a Mary" è
corretto; ma tristemente spiccio. Uno degli universali che possiamo
dedurre dall idea ai società, una volta che sappiamo che cos'è una
società e che cos'è la psiche, riguarda la validità effettiva (geltung), positiva (nel senso del diritto positivo), dell'immenso edificio istituito. Com'è
che l'istituzione e le istituzioni (linguaggio, definizione della
realtà e della verità, modi di fare, lavoro, regolazione sessuale,
permesso/proibito, appello a morire per la tribù o per la patria quasi
sempre accolto con entusiasmo) riescono a imporsi alla psiche che è, per
sua stessa essenza, radicalmente ribelle a tutto questo ammasso di
elementi confusi? I versanti di questa questione sono due: lo psichico e
il sociale. Dal punto di vista psichico la costruzione sociale
dell'individuo è un processo storico mediante il quale la psiche è
costretta (dolcemente o brutalmente, si tratta sempre di una violenza
fatta alla sua stessa natura) ad abbandonare (mai totalmente, ma
abbastanza per il bisogno/utilizzo sociale) i suoi oggetti e il suo
mondo iniziali e a investire degli oggetti, delle regole, un mondo che
sono istituiti socialmente. Risiede qui il vero senso del
processo di sublimazione. Il requisito minimo che consente a questo
processo di svolgersi è che l'istituzione offra alla psiche del senso,
un senso diverso dal proto-senso della monade psichica. L'individuo
sociale si costituisce così interiorizzando il mondo e i significati
creati dalla società; interiorizzando esplicitamente certi frammenti
importanti di questo mondo, e implicitamente la sua totalità virtuale,
attraverso gli interminabili rimandi che collegano magmaticamente ogni
frammento di questo mondo agli altri.
Il versante sociale di questo
processo è costituito dall'insieme delle istituzioni con le quali
l'essere umano ha costantemente a che fare fin dalla sua nascita; in
primo luogo con l'altro sociale (generalmente ma non ineluttuabilmente
la madre) che si prende cura di lui essendo già esso stesso socializzato
in un determinato modo, e con il linguaggio che questo altro parla. Da
un punto di vista più astratto si tratterà di quella parte di tutte le
istituzioni che riguarda l'istruzione, la formazione, l'educazione dei
nuovi venuti (ciò che i greci chiamavano paideia: la famiglia, le classi
di età, i riti, la scuola, i costumi e le leggi). La validità effettiva
delle istituzioni è così assicurata inizialmente e prima di tutto dal
processo stesso mediante il quale il piccolo mostro frignante diviene
individuo sociale. E può divenirlo soltanto nella misura in cui ha
interiorizzato le istituzioni stesse.
Se noi definiamo potere la capacità, per un'istanza qualunque (personale o impersonale), d'indurre qualcuno (o più persone) a fare (o a non fare) ciò che, lasciato a se stesso, non avrebbe necessariamente fatto (o che forse avrebbe fatto), è
evidente che il più grande potere concepibile risulta essere quello di
poter preformare qualcuno in modo che faccia ciò che si vorrebbe facesse
senza alcun bisogno di dominio o di potere esplicito. è altrettanto
evidente che per il soggetto assoggettato questo procedimento crea sia
l'apparenza della spontaneità più completa, che la realtà
dell'eteronomia più totale. Rispetto a questo potere assoluto
qualunque dominazione sarà carente, testimoniando di uno smacco
irrimediabile (parlerò d'ora in poi di potere esplicito e non di
dominio; questo termine va riservato alle situazioni sociostoriche
specifiche in cui si è istituita una divisione asimmetrica e antagonista
del corpo sociale). Prima di qualunque potere esplicito, e di
più, prima di qualunque dominazione, l'istituzione esercita un
infrapotere radicale su tutti gli individui da essa generati.
Questo
infra-potere (manifestazione e dimensione del potere istituente
dell'immaginario radicale) non è localizzabile. Certamente esso non è
mai quello di un individuo e neanche quello di un'istanza designabile. Esso
è esercitato dalla società istituita, ma dietro a questa si regge la
società istituente; e, da quando l'istituzione viene posta, il sociale
istituente comincia a sottrarsi, si mette a distanza, è già altrove. A
sua volta la società istituente, per quanto radicale sia la sua
creazione, lavora sempre a partire da e sul già istituito. Essa è sempre
(salvo per un punto d'origine inaccessibile) nella storia, è sempre, in
una parte non misurabile, ripresa del già dato; è dunque sotto il peso
di un eredità, anche se con un beneficio d'inventario del quale, nello
stesso modo, è difficile fissare i limiti. Cosa questo significhi per il
progetto di autonomia e per l'idea di libertà umana effettiva verrà
considerato più avanti. Resta il fatto che l'infra-potere in questione,
il potere istituente, è al tempo stesso quello dell'immaginario
istituente, della società istituita e di tutta la storia, la quale vi
trova il suo esito provvisorio. Si tratta dunque, in un certo senso, del
potere dello stesso campo socio-storico, il potere di outis, di
nessuno. Preso in se stesso l'infra-potere esercitato dall'istituzione
dovrebbe essere assoluto, e formare gli individui in modo che essi
riproducano eternamente il regime che li ha prodotti. E del resto è
manifestamente questa la stretta intenzione (o finalità) delle
istituzioni esistenti quasi ovunque, quasi sempre. In questo modo non ci
sarebbe storia, e si sa che non è affatto vero. La società istituita
non giunge mai a esercitare il suo infra-potere come assoluto. Al
massimo (ed è il caso delle società selvagge e, genericamente, delle
società che dobbiamo chiamare tradizionali) essa può riuscire a
instaurare una temporalità dell'apparente-ripetizione-essenziale, entro
la quale lavora, impercettibilmente e su dei periodi lunghi, la sua
ineliminabile storicità. In quanto assoluto e totale, l'infra-potere
della società istituita (e dietro a questa, della tradizione) è dunque
votato al fallimento. Questo fatto che noi constatiamo con semplicità
(c'è storia, c'è una pluralità di società altre) richiede qualche
delucidazione. Quattro fattori sono qui chiamati in causa. La
società crea il suo mondo, lo investe di senso, fa scorta del
significato destinato a coprire anticipatamente tutto ciò che potrebbe
presentarsi. Il magma di significati immaginari socialmente
istituiti riassorbe potenzialmente tutto ciò che potrebbe succedere e
non può, in linea di principio, venire sorpreso o essere preso alla
sprovvista. In questo, evidentemente, il ruolo della religione (e la sua
essenziale funzione di chiusura del senso) è sempre stato centrale
(l'olocausto diviene una prova della singolarità e dell'elezione del
popolo ebreo). L'organizzazione in sè insiemistico-identitaria del mondo
é non soltanto sufficientemente stabile e sistematica nel suo primo
strato da permettere la vita umana in società, ma è anche altrettanto
lacunosa e incompleta per poter produrre un numero indefinito di
creazioni sociostoriche di significati. Questi due aspetti rinviano a
delle dimensioni ontologiche del mondo in sé, che nessuna soggettività
trascendentale, nessun linguaggio, nessuna pragmatica della
comunicazione saprebbero far esistere. Ma anche il mondo, in quanto
mondo pre-sociale, limite del pensiero, benché in se stesso non
significhi nulla, è sempre là, come scorta inesauribile di alterità,
come rischio sempre imminente di lacerazione del tessuto dei significati
con i quali la società lo ha rivestito. L'assenso del mondo è sempre
una possibile minaccia per il senso della società, è il rischio sempre
presente di distruzione dell'edificio sociale dei significati. La
società forma gli individui a partire da una materia prima, la psiche.
Che cosa bisogna ammirare di più? La quasi totale plasticitàd ella
psiche rispetto alla formazione sociale che la sottomette, oppure la sua
capacità invincibile di preservare il nucleo monadico e la sua
immaginazione radicale, che mette sotto scacco, almeno parziale,
l'educazione perpetuamente subita? Di qualunque genere sia la rigidità o
l'impermeabilità del tipo d'individuo nel quale essa si è trasformata,
l'essere proprio e irriducibile della psiche singolare si manifesta
sempre, come sogno, malattia psichica, trasgressione, litigio e
bisticciosità, ma anche come singolare contributo alla lentissima
alterazione dei modi sociali di fare e di rappresentare. La
società è solo eccezionalmente (mai?) unica e isolata. Esiste una
pluralità indefinita di società umane, coesistenza sincronica a contatto
tra società altre. L'istituzione delle società altre e dei loro
significati costituisce una minaccia mortale per le nostre: ciò che per
noi è sacro per loro è abominio e il nostro senso è il volto stesso del
non-senso. Infine, e forse soprattutto, la società non può mai
sfuggire a se stessa. La società istituita è sempre il prodotto della
società istituente. Sotto l'immaginario sociale costituito scorre sempre l'immaginario radicale. Del
resto è proprio il fatto primo, bruto, dell'immaginario radicale che
consente non di spiegare, ma di spostare la questione posta da
espressioni quali "si dà il caso" e "vi sia" usate
precedentemente. Dire che c'è pluralità essenziale di società,
sincronica e diacronica, significa dire che c'è un immaginario
istituente. Contro tutti questi fattori che minacciano la sua stabilità e
la sua auto-perpetuazione, la società prevede sempre delle difese e
delle risposte pre-stabilite e pre-incorporate. Principale tra queste è
la cattolicità e la virtuale onnipotenza del suo magma di
significazioni. Le irruzioni del mondo amorfo e bruto saranno
segni di qualche cosa, interpretati ed esorcizzati; il sogno come la
malattia. Gli altri saranno presentati come strani, selvaggi, empi.
Il punto nel quale le difese della società istituita sono più deboli è
senza dubbio il proprio immaginario istituente. Esso è anche il punto
per il quale sia stata inventata la difesa più forte. La più forte,
fintanto che dura, e sembra che duri almeno da centomila anni. è la
denerazione e l'occultamento della dimensione istituente della società, e
l'imputazione dell'origine e del fondamento dell'istituzione e dei suoi
significati a una sorgente extra-sociale (extra-sociale in rapporto
alla società effettiva, vivente: può trattarsi di dei o di dio, ma anche
di eroi fondatori o di antenati che si reincarnano continuamente nei
nuovi venuti). Delle supplementari linee di difesa, benché più deboli,
vengono create all'interno degli universi storici più tormentati, quando
la denegazione dell'alterazione della società, o l'occultamento
dell'innovazione attraverso il suo esilio in un passato mitico,
divengono impossibili, il nuovo può essere sottomesso a una riduzione
fittizia ma efficace mediante il commento e l'interpretazione della
tradizione (è il caso delle weltreligionen, delle religioni
cosmo-storiche, e in particolare dei mondi ebraico, cristiano e
islamico). Il fatto che tutte queste difese possano fallire (e in un
certo senso falliscono sempre), che possano esserci il delitto, il
litigio violento e insolubile, la calamità naturale che distrugge la
funzionalità delle istituzioni esistenti, la guerra, è una delle radici
del potere esplicito. Nell'istituzione della società c'è sempre,
e ci sarà sempre, una dimensione incaricata di questa funzione
essenziale: ristabilire l'ordine, proteggere la vita e l'opera della
società contro tutto ciò che attualmente o potenzialmente la mette in
pericolo.
Esiste un'altra radice, forse più importante, del potere esplicito.
L'istituzione della società, e il magma delle significazioni
immaginarie che essa incarna, sono molto più di un ammasso di
rappresentazioni (o di idee). La società s'istituisce
all'interno e attraverso le tre dimensioni indissociabili della
rappresentazione, dell'affetto e dell'intenzione. Anche se la
parte rappresentativa (che non significa necessariamente rappresentabile
o dicibile) del magma delle significazioni sociali immaginarie si
presentasse come la più accessibile, tale accesso rimarrebbe comunque
insufficiente (e lo è spesso nelle filosofie della storia e nelle
storiografie) se mirasse soltanto a una storia e a un'ermeneutica delle
rappresentazioni e delle idee, se ignorasse il magma di affetti proprio a
ogni società (la sua Stimmung, la sua "maniera di viversi e di vivere il mondo e la vita"),
se ignorasse i vettori intenzionali che intrecciano insieme
l'istituzione e la vita della società, cioè la sua caratteristica spinta
(che idealmente potrebbe essere ridotta alla sua mera conservazione, ma
che in realtà non lo è mai). è per questa spinta che il
passato/presente della società è abitato da un a-venire che è sempre un
da-fare. è questa spinta che da senso all'incognita più grande: ciò che
non è ancora ma che sarà, che darà ai viventi il modo di partecipare
alla costituzione o alla preservazione di un modo che prolungherà il
senso stabilito. E ancora mediante questa spinta che la pluralità
innumerevole delle attività sociali, nello stesso tempo in cui è
sottomessa a una gerarchizzazione, oltrepassa sempre il livello della
mera conservazione biologica della specie. Ora, l'ineliminabile tensione
della spinta verso ciò che è da-fare introduce un altro tipo di
disordine nell'ordine sociale, poiché anche nell'ambito più fisso e più
ripetitivo l'ignoranza e l'incertezza nei confronti dell'avvenire non
consentono mai una piena codificazione preliminare delle decisioni. Il
potere esplicito appare così radicato tanto nella necessità della
decisione quanto in ciò che è da fare e da non fare, rispetto ai fini
più o meno esplicitati che la società considerata si dà come oggetti. è
così che mentre ciò che noi chiamiamo potere legislativo e potere
esecutivo possono restare nascosti nell'istituzione (nel costume e
nell'interiorizzazione delle norme supposte essere eterne), un potere
giudiziario e un potere governativo dovranno invece essere
esplicitamente presenti, in una forma qualunque, non appena si dà
società. La questione del nomos (e della sua applicazione in
qualche modo meccanica: il preteso potere esecutivo) può venire nascosta
da una società; le questioni della dikè e del telos no. Comunque sia
l'articolazione esplicita del potere istituito, non può mai essere
pensata unicamente in funzione dell'opposizione "amico/nemico" (Carl Schmitt); il potere esplicito non potrebbe neanche (non più della dominazione) essere ridotto al "monopolio della violenza legittima". A
monte del monopolio della violenza legittima c'è il monopolio della
significazione valida. Il padrone della significazione troneggia sul
padrone della violenza. è soltanto in mezzo al fracasso
prodotto dal crollo dell'edificio delle significazioni istituite che la
voce delle armi può cominciare a farsi sentire. E ancora, perché la
violenza possa intervenire bisogna che la parola (l'ingiunzione del
potere esistente) conservi il suo potere sui "gruppi di uomini armati".
La quarta compagnia del reggimento Pavlosky (guardie del corpo di Sua
Maestà) e il reggimento Semenovsky, sono i più solidi sostegni del trono
dello Zar fino al 26 e 27 febbraio del 1917, giorno in cui essi
fraternizzeranno con la folla e rivolgeranno le armi contro i propri
ufficiali. L'armata più potente del mondo non vi proteggerà se non vi
resta fedele. E il fondamento ultimo della sua fedeltà è la credenza
immaginaria nella vostra legittimità immaginaria. In una società
dunque c'è e ci sarà sempre potere esplicito, a meno che essa non
riesca a trasformare i suoi soggetti in atomi che abbiano completamente
interiorizzato l'ordine istituito, e a costruire una temporalità che
ricopra anticipatamente tutto l'avvenire; compiti impossibili visto ciò
che noi sappiamo della psiche, dell'immaginario istituente, del mondo.
è questa dimensione dell'istituzìone della società che dobbiamo
chiamare dimensione del politico, in riferimento al potere esplicito,
cioè all'esistenza di istanze che possano emettere delle ingiunzioni
sanzionabili. A questo livello, poco importa che tali istanze siano
incarnate dall'intera tribù, dagli anziani, dai guerrieri, da un capo,
dal demos, da un apparato burocratico o da qualsiasi altra cosa. Tre
motivi di confusione devono essere a questo punto dissolti. Il primo riguarda l'identificazione del potere esplicito con lo stato. Le "società senza stato" non sono delle "società senza potere".
In esse regna non soltanto, come dappertutto, un infra-potere enorme
(tanto più enorme quanto il potere esplicito è ridotto) dell'istituzione
già data, ma anche un potere esplicito della collettività (o dei
maschi, dei guerrieri) relativo alla diké e al telos, alle controversie e
alle decisioni. Il potere esplicito non è lo stato; termine e nozione
questa che dobbiamo riservare a un eidos specifico, la cui creazione
storica è più o meno databile e localizzabile. Lo stato è
un'istanza separata dalla collettività, istituita in modo da assicurare
costantemente questa separazione. Lo stato è una tipica istituzione
seconda . Da parte mia propongo che si riservi il termine stato ai casi
in cui questo è istituito come apparato di stato, il quale implica una
burocrazia separata, civile, clericale o militare, anche rudimentale,
cioè un'organizzazione gerarchica delimitata per regioni di competenza. Questa
definizione ricopre l'immensa maggioranza delle organizzazioni statali
conosciute e lascia fuori solo quei rari casi sui quali si accaniscono
coloro che dimenticano che qualsiasi definizione nel dominio
socio-storico non vale che per la stragrande maggioranza dei casi, come
avrebbe detto Aristotele. In questo senso la polis democratica greca non
è uno stato, considerando che il potere esplicito (la posizione del
nomos, la diké e il telos) appartiene a tutto il corpo dei cittadini. E
questo spiega tra l'altro le difficoltà di uno spirito potente come
quello di Max Weber di fronte alla polis democratica: l'impossibilità di
far rientrare la democrazia ateniese nel tipo ideale di dominazione
tradizionale o razionale (non dimentichiamo che per Weber dominazione
razionale e dominazione burocratica sono termini intercambiabili!) e i
suoi infelici sforzi per assimilare i demagoghi ateniesi a dei detentori
di un potere carismatico. I marxisti e le femministe ribatteranno senza
dubbio che il demos esercitava un potere sugli schiavi e sulle donne,
dunque che esso era lo stato. Ma allora si dirà che i bianchi degli
Stati del sud degli Usa erano lo stato per gli schiavi neri fino al
1865? O che i maschi adulti francesi erano lo stato per le donne fino al
1945 (e, perché no, gli adulti per i non-adulti oggi?). Né il potere
esplicito, né la dominazione prendono necessariamente la forma dello
stato. La seconda confusione è quella del politico (dimensione del
potere esplicito) con l'istituzione complessiva della società. Si sa che
il termine "il politico" è stato introdotto da Carl Schmitt (Der Begriffdes Politischen,
1928) in un senso stretto, e, se si accetta ciò che precede,
essenzialmente difettoso. Si assiste oggi a un tentativo inverso, che
pretende di dilatare il senso del termine fino a fargli riassorbire
l'istituzione complessiva della società. La distinzione del politico
rispetto ad altri fenomeni sociali si rivelerebbe, sembra, positivista
(naturalmente non si tratta dei fenomeni, ma delle dimensioni
ineliminabili dell'istituzione sociale: linguaggio, lavoro, riproduzione
sessuale, educazione delle nuove generazioni, religione, costumi,
cultura in senso stretto). Sarebbe così il politico ad avere l'incarico
di generare i rapporti degli umani tra loro e con il mondo, la
rappresentazione della natura e del tempo, o il rapporto tra potere e
religione. E, beninteso, tutto questo non è nient'altro che quello che
dal 1965 ho definito come l'istituzione immaginaria della società e il
suo essenziale sdoppiamento in istituente e istituito. A parte i gusti
personali, non è chiaro cosa si guadagni nel chiamare il politico
l'istituzione catholou della società, mentre è chiaro cosa si
perde. Dei due casi almeno uno è vero: chiamando il politico ciò che
tutti naturalmente chiamerebbero l'istituzione della società, o compiono
un cambiamento di vocabolario che non apporta sostanzialmente nulla, e
crea piuttosto, una confusione e che urta con "nomina non sunt praeter necessitatem multiplicanda".
Oppure si mira a salvaguardare in questa sostituzione di termini le
connotazioni che il termine politico possiede dal momento della sua
creazione da parte dei greci, cioè quelle che si riferiscono a delle
decisioni esplicite e, almeno in parte, coscienti. In questo caso, per
uno strana capovolgimento, il linguaggio, l'economia, la religione, la
rappresentazione del mondo deriverebbero dalle decisioni politiche, in
un modo che non deluderebbe né Charles Maurras né Pol Pot. Dire che
tutto è politico o non significa niente, oppure significa che tutto deve
essere politico, derivare cioè da una decisione esplicita del sovrano.
La radice di questa seconda confusione risiede forse in una terza,
quella che afferma che i greci hanno inventato la politica. Si possono
accreditare ai greci molte cose (soprattutto altre cose da quelle che
vengono loro abitualmente attribuite) ma certamente non l'invenzione
dell'istituzione della società, e neanche del potere esplicito. I greci
non hanno inventato il politico, nel senso della dimensione del potere
esplicito sempre presente in tutte le società; essi hanno inventato, o
meglio creato, la politica, che è tutt'altra cosa. A volte si discute
per cercare di definire in che misura c'era politica prima dei greci.
Vana querelle, termini vaghi, pensiero confuso. Prima dei greci (e dopo)
vi sono intrighi, cospirazioni, millantato credito, lotte sorde o
aperte per impossessarsi del potere esplicito, un'arte di gestire il
potere esistente (fantasticamente sviluppata in Cina, per esempio) e
anche di migliorarlo. Ci sono dei cambiamenti espliciti e decisi di
certe istituzioni, e anche delle pre-istituzioni radicali (Mosé o,
comunque, Maometto). Ma in questi casi il legislatore gode del potere
d'istituire per diritto divino, che sia profeta o re egli invoca o
produce dei libri sacri. Se i greci hanno potuto creare la
politica, la democrazia, la filosofia, è anche perché essi non avevano
né libro sacro, né profeti. Essi avevano dei poeti, dei filosofi, dei
legislatori e dei politaì. La politica, così come i greci
l'hanno creata, è stata l'esplicita messa in discussione
dell'istituzione costituita della società, che presupponeva l'idea (e
ciò viene chiaramente affermato nel quinto secolo) che delle parti
rilevanti di questa istituzione non avessero niente di sacro né di
naturale, ma discendevano dal nomos. Il movimento democratico si salda a
quello che ho chiamato il potere esplicito, e tende a re-istituirlo.
Come si sa, esso fallisce (o non riesce nemmeno a partire) almeno nella
metà delle poleis. Ciò non toglie che la sua emergenza operi in quasi
tutte le poleis. Poichè anche i regimi oligarchici o tirannici devono,
rispetto a esso, definirsi come tali, apparire dunque per ciò che sono.
Ma il movimento democratico non si limita a questo, esso tende
potenzialmente alla re-istituzione globale della societa', che può
attualizzarsi attraverso la creazione della filosofia. Non piu' commento
o interpretazione di testi tradizionali o sacri, il pensiero greco è
ipso facto messa in questione della dimensione più importante
dell'istituzione della societa': delle rappresentazioni e delle norme
della tribù e della nozione stessa della verità. Certo, sempre e
dappertutto esiste la verita' socialmente istituita, equivalente alla
conformità canonica delle rappresentazioni e degli enunciati con ciò che
è socialmente istituito come l'equivalente di assiomi e di procedure di
convalida. Ma i greci creano la verità, come movimento interminabile
del pensiero, nel mettere costantemente alla prova i suoi stessi limiti e
nel ritornare su se stesso (riflessività), e la creano come filosofia
democratica: pensare non è una faccenda per rabbini, preti,
cortigiani o rinunciatari, ma per cittadini che vogliono discutere nello
spazio pubblico creato attraverso questo stesso movimento.
Tanto la politica greca quanto la politica possano venire definite come
attività collettiva esplicita, che si vuole lucida, ponderata e
deliberata, che si dà come oggetto l'istituzione della società in quanto
tale. Essa è dunque un venire alla luce, certo parziale,
dell'istituente in persona (drammaticamente ma non esclusivamente
illustrato dai momenti rivoluzionari). La creazione della politica ha
luogo quando l'istituzione data della società viene messa in causa in
quanto tale e nei suoi differenti aspetti e dimensioni (che è ciò che ne
fa rapidamente scoprire, esplicitare, ma anche articolare diversamente
la solidarietà); quando dunque un altro rapporto, fino ad allora
inedito, viene creato tra l'istituente e l'istituito. La politica si
situa subito, e potenzialmente, a un livello che è al tempo stesso
radicale e globale; cosi' come il suo rampollo, la filosofia politica
classica. Dico potenzialmente poichè, è noto, molte istituzioni
esplicite (e tra esse alcune che ci colpiscono particolarmente:
schiavitù, condizione delle donne) in pratica non sono mai state messe
in discussione. Ma questa considerazione non è qui pertinente. La
creazione della democrazia e della filosofia è l'origine del movimento
storico, che va dall'ottavo al quinto secolo, e che si conclude di fatto
con la sconfitta del 404. La radicalità di questo movimento non può
essere sotto valutata. Anche non considerando l'attività dei nomoteti,
sulla quale possediamo poche informazioni affidabili (ma sulla quale
potrebbero venir formulate molte inferenze ragionevoli, in particolare
sulle colonie che cominciano nell'ottavo secolo) è sufficiente ricordare
l'audacia della rivoluzione clisteniana, che riorganizza profondamente
la società ateniese tradizionale verso un'uguale ed equilibrata
partecipazione di tutti al potere politico. Le discussioni e i progetti
politici, di cui sono testimoni i busti mutilati e sparsi del sesto e
quinto secolo (Solone, Ippodemo, i sofisti, Democrito, Tucidide,
Aristofane), fanno apparire questa radicalità in modo clamoroso.
L'istituzione della società viene chiaramente considerata dai greci come
opera umana (Democrito, Mikros Diakosmos ). Ma al tempo stesso essi
scoprono rapidamente che l'essere umano sarà ciò che ne faranno i nomoi
della polis. Essi sanno dunque che non c'è uomo che valga senza una
polis che valga e che non sia retta dal nomos appropriato. Essi sanno
anche, contrariamente a Leo Strauss, che non si da nomos naturale (in
greco sarebbe un accostamento di termini contraddittori). Si tratta
della scoperta dell'arbitrarietà del nomos e contemporaneamente della
sua dimensione costitutiva all'essere umano, individuale e collettivo,
che apre l'interminabile discussione sul giusto e sull'ingiusto, e sul
buon regime. E questa radicalità, e questa coscienza della fabbricazione
dell'individuo da parte della società nella quale egli vive, che sta
dietro le opere filosofiche della decadenza (del quarto secolo, di
Platone e di Aristotele), che le ordina come una Selbstverstándlichkeit
e che le nutre. Essa consente a Platone di pensare un'utopia radicale;
lo spinge a mettere l'accento, come Aristotele, più sulla paideia
che sulla costituzione politica in senso stretto. Non è affatto un caso
che la rinascita della vita politica in Europa occidentale si
accompagni, abbastanza rapidamente, alla riapparizione di utopie
radicali. Le utopie testimoniano, in primo luogo e prima di tutto, di
questa consapevolezza: l'istituzione è opera umana. E non è affatto un
caso che, contrariamente alla povertà della filosofia politica
contemporanea a questo riguardo, la grande filosofia politica, da
Platone a Jean Jacques Rousseau, abbia messo la paideia al
centro dei suoi interessi. Questa grande tradizione muore con la
rivoluzione francese, anche se nella pratica la questione
dell'educazione ha sempre preoccupato i moderni. E bisognerebbe essere
un idiota o un ipocrita per mostrare di stupirsi di quello che Platone
ha pensato di legiferare sui nomoi musicali o sulla poesia
(oggi lo stato decreta quali poesie i bambini devono imparare a scuola);
che egli abbia avuto ragione o torto nel farlo come lo ha fatto e fino
al punto in cui ha voluto farlo, è un'altra questione. Ci torneremo
sopra. La creazione della politica e della filosofia dei greci è la
prima emergenza storica del progetto di autonomia collettiva e
individuale. Se vogliamo essere liberi dobbiamo fare il nostro nomos.
Se vogliamo essere liberi nessuno deve poterci dire ciò che dobbiamo
pensare. Ma liberi come, e fino a che punto? Queste sono le questioni
della vera politica (sempre più svuotata dai discorsi contemporanei sul
politico, sui diritti dell'uomo o sul diritto naturale) che dobbiamo ora
affrontare. Quasi dappertutto e quasi sempre le società hanno vissuto
nell'eteronomia istituita; la rappresentazione istituita di una sorgente
extrasociale del nomos ne è parte integrante. Il ruolo della
religione è in questo senso centrale: fornisce la rappresentazione di
questa sorgente e dei suoi attributi, assicura che tutte le
significazioni del mondo e delle cose umane scaturiscano dalla stessa
origine, cementa questa sicurezza attraverso la credenza, che gioca su
delle componenti essenziali dello psichismo umano. Sia detto
incidentalmente: la tendenza attuale (della quale Weber è in parte
responsabile) a presentare la religione come un insieme di idee, quasi
come un'ideologia religiosa, conduce a dei risultati catastrofici,
poichè essa misconosce le significazioni immaginarie religiose, che sono
altrettanto importanti e altrettanto variabili delle rappresentazioni
quali l'affetto religioso e la spinta religiosa. Il diniego della
dimensione istituente della società, l'occultamento dell'immaginario
istituente mediante l'immaginario istituito, vanno di pari passo con la
creazione di individui assolutamente conformi, che si vivono e si
pensano nella ripetizione (malgrado quello che possano fare di diverso; e
fanno molto poco), la cui immaginazione radicale è inevitabilmente
imbrigliata e che non sono davvero individuati (si paragoni per esempio
la somiglianza delle sculture di una stessa dinastia egiziana con la
differenza tra Saffo e Archiloco o tra Bach e Haendel). Tale diniego va
di pari passo anche con il prematuro decadere dell'interrogazione sul
fondamento ultimo delle credenze della tribu' e delle sue leggi, dunque
di quella sulla legittimità del potere esplicito istituito. In questo
senso il termine stesso legittimità della dominazione applicato a delle
società tradizionali è anacronistico. Tradizione significa che la
questione della legittimità della tradizione non verrà posta. Gli
individui vengono formati in modo che la questione resti mentalmente e
psichicamente impossibile. L'autonomia comincia a sorgere in germe da
quando esplode l'interrogativo esplicito e illimitato, che non verte su
dei fatti ma su delle significazioni immaginarie sociali e sui loro
possibili fondamenti. Momento di creazione che inaugura sia un altro
tipo di società che un altro tipo d'individui. Parlo di germe perché
l'autonomia, individuale e sociale, è un progetto. L'emergere
dell'interrogativo illimitato crea un nuovo eidos storico: la
riflessività nel suo pieno senso, o autoriflessività, l'individuo che la
incarna e le istituzioni che la stipulano. Sul piano sociale si chiede:
le nostre leggi sono buone? Sono giuste? Quali leggi dobbiamo fare? E
sul piano individuale: ciò che penso è vero? Posso sapere se ciò che
penso è vero? E come? Il momento della nascita della filosofia non è
nell'apparizione della "questione dell'essere", ma
nell'emergere di questo interrogativo: cosa dobbiamo pensare? (la
questione dell'essere non è che una parte se d'altronde essa viene posta
e risolta nel Pentateuco e nella maggior parte dei libri sacri). Il
momento della nascita della democrazia, e della politica, non è nel
regno della legge o del diritto, né in quello dei diritti dell'uomo, e
neanche dell'uguaglianza dei cittadini in quanto tale, ma è l'emergere
della messa in discussione della legge nel fare effettivo della società.
Quali leggi dobbiamo fare? E in questo preciso momento che nasce la
politica; che è come dire che nasce la libertà in quanto
socio-storicamente effettiva. Nascita indissociabile da quella della
filosofia (è l'ignoranza sistematica e per niente accidentale di questa
indissociabilità che deforma costantemente lo sguardo di Heidegger sui
greci e sul resto). Autonomia: autos-nomois, (darsi) da sé le proprie leggi. Precisazione quasi inutile dopo ciò che è stato detto sull'eteronomia: sapendo cioè che lo si fa. Insorgenza di un eidos
nuovo nella storia dell'essere: un tipo di essere che si da da sè,
riflessivamente, le sue leggi d'essere. Questa autonomia non ha niente
in comune con l'autonomia kantiana. E per molte ragioni è sufficiente
menzionarne qui una soltanto: non si tratta di scoprire in una ragione
immutabile una legge che essa si darebbe una volta per tutte, ma
d'interrogarsi sulla legge e sui suoi fondamenti, di non restare
affascinati da questo stesso interrogativo ma di fare e di istituire
(dunque anche di dire). L'autonomia è l'agire riflessivo di una ragione
che si crea in un movimento senza fine, al tempo stesso individuale e
sociale. Ritorniamo alla politica propriamente detta e per facilità di
comprensione cominciamo con il proteron pros hemas:
l'individuo. In che senso un individuo può essere autonomo? Questa
questione ha due facce, una interna l'altra esterna. La faccia interna:
il nucleo dell'individuo è una psiche inconscia (le pulsioni) che non si
tratta nè di eliminare nè di dominare; non soltanto sarebbe
impossibile, ma sarebbe come uccidere l'essere umano.
L'individuo porta con sé a ogni istante, dentro di lui, una storia che
egli non può e non deve eliminare, poiché la sua stessa riflessività, la
sua lucidità, ne è, in un certo senso, il prodotto.
L'autonomia dell'individuo consiste nel fatto che si stabilisca un altro
rapporto tra l'istanza riflessiva e le altre istanze psichiche (così
come tra il suo presente e la storia attraverso la quale esso si è
costituito in quanto tale) che gli permetta di sfuggire all'asservimento
alla ripetizione, di ritornare su se stesso, sulle ragioni dei suoi
pensieri e sui motivi dei suoi atti; guidato dall'aspirazione al vero e
dalla elucidazione del suo desiderio. Che questa autonomia possa
effettivamente alterare il comportamento dell'individuo (e noi sappiamo
che essa può farlo) significa che quest'ultimo ha cessato di essere il
puro prodotto della sua psiche, della sua storia e dell'istituzione che
lo ha formato. Detto altrimenti, la formazione di un'istanza
riflessiva e deliberante, della vera soggettività, libera
l'immaginazione radicale dell'essere umano singolare come sorgente di
creazione e di alterazione e gli fa raggiungere una libertà effettiva,
che certo presuppone l'indeterminazione del mondo psichico e la sua
permeabilità al senso, ma che comporta anche che il senso meramente dato
cessi di essere causa (ed è sempre tale nel mondo socio-storico) e che
ci sia scelta del senso non dettata prima. Detto ancora
diversamente, nel dispiegamento e nella formazione di questo senso,
qualsiasi sia la sorgente (immaginazione radicale creatrice dell'essere
singolare o ricezione di un senso creato socialmente) l'istanza
riflessiva, una volta costituita, gioca un ruolo attivo e non
predeterminato. Ciò presuppone a sua volta un meccanismo psichico:
essere autonomi implica che si abbia psichicamente investito la libertà e
l'aspirazione alla verità. Se non fosse così non si capirebbe perchè
Immanuel Kant fatichi tanto sulle critiche al posto di divertirsi su
qualcos'altro. Questo investimento psichico (determinazione psichica)
non toglie niente all'eventuale validità delle idee della critica,
all'ammirazione meritata verso l'audace vegliardo, al valore morale
della sua impresa. Perché essa trascina tutte queste considerazioni e la
libertà della filosofia ereditata resta finzione, fantasma
inconsistente, constructum senza interesse "per noi altri uomini",
secondo l'espressione ossessivamente ripetuta dallo stesso Kant. La
faccia esterna ci immerge nel bel mezzo dell'Oceano socio-storico. Non
posso essere libero da solo, e neanche in una qualsiasi societa'
(illusione di Descartes, che pretendeva di dimenticare di essere seduto
su ventidue secoli di interrogativi e altrettanti di dubbi, che
dimenticava di vivere in una società in cui da secoli la rivelazione
come la fede del carbonaio avevano smesso di essere sufficienti, essendo
ormai diventata esigibile la dimostrazione dell'esistenza di dio da
tutti quelli che pensano, anche dai credenti. Non si tratta dell'assenza
di costrizione formale, ma dell'ineliminabile interiorizzazione
dell'istituzione sociale senza la quale non c'è individuo. Per investire
la libertà e la verità bisogna che esse siano già emerse come
significazioni sociali immaginarie. Perchè possano sorgere degli
individui che mirino all'autonomia bisogna che il campo socio-storico si
sia già auto-alterato in modo da aprire uno spazio d'interrogazione
senza limiti (senza rivelazioni istituite, per esempio). Perché qualcuno
possa trovare in se stesso le risorse psichiche, e in ciò che lo
circonda i mezzi, per alzarsi e dire che le nostre leggi sono ingiuste e
i nostri dei falsi, è necessaria un'auto-alterazione dell'istituzione
sociale, opera dell'immaginario istituente (l'enunciato: "la legge è ingiusta"
è per un ebreo classico linguisticamente impossibile o perlomeno
assurda, perché la legge è stata data da dio e la giustizia è un
attributo esclusivamente di dio). Bisogna che l'istituzione sia divenuta
tale da permettere la sua messa in discussione da parte della
collettività che essa fa esistere e degli individui che vi appartengono.
Ma questi stessi individui che camminano, parlano, agiscono, sono
l'incarnazione concreta dell'istituzione. E dunque nello stesso momento,
relativamente all'assenza della cosa, che devono sorgere (e che sorgono
infatti: in Grecia a partire dal settimo secolo e in Europa occidentale
a partire dal dodicesimo e tredicesimo secolo) un nuovo tipo di società
e un nuovo tipo di individui, che hanno un'implicazione reciproca. Non
c'è falange senza opliti, e non ci sono opliti senza falange. E
Archiloco non potrebbe vantarsi, poco dopo il '700, di aver gettato il
suo scudo fuggendo e di dire che il danno non è grave poichè potrà
comprarsene un altro, senza una società di guerrieri-cittadini che
possano onorare al tempo stesso la bravura in battaglia e il poeta che
per una volta la ridicolizza. La necessaria simultaneità di questi due
elementi in un momento di alterazione storica crea una situazione
impensabile per la logica ereditata della determinità.
Come comporre
una società libera se non a partire da individui liberi? E dove trovare
questi individui se essi non siano gia' stati cresciuti nella libertà?
(Si tratterebbe della libertà inerente alla natura umana? Allora perché
essa avrebbe sonnecchiato durante millenni di dispotismo, orientale o
altro?). Essa rinvia nuovamente al lavoro creatore dell'immaginario
istituente come immaginario radicale depositato nel collettivo anonimo.
Fin dall'inizio dunque l'interiorizzazione ineliminabile
dell'istituzione rinvia l'individuo al mondo sociale. Chi dice di voler
essere libero e di non avere niente a che fare con l'istituzione (o, che
è lo stesso, con la politica) deve essere rimandato alle scuole
elementari. Ma questo rinvio si produce a partire dal senso stesso del nomos,
della legge: farsi da soli la propria legge può avere un senso soltanto
in certe dimensioni della vita, e nessun senso in altre dimensioni. Non
soltanto quelle in cui incontro gli altri, con i quali posso andare
d'accordo, contro i quali posso battermi o che posso semplicemente
tentare di ignorare, ma soprattutto quelle in cui incontro la società in
quanto tale, la legge sociale, l'istituzione. Posso dire che pongo la
mia legge quando vivo necessariamente sotto la legge della società? Si,
ma solo in un caso e cioè se posso dire, dopo aver riflettuto
lucidamente, che questa legge è anche la mia. Per poter dire questo non è
necessario approvarla, è sufficiente che io abbia la possibilità
effettiva di partecipare attivamente alla formazione e al funzionamento
della legge. La possibilità di partecipare sta in questo: se accetto
l'idea di autonomia come tale e non soltanto perchè essa "va bene per me". Cosa che nessuna "dimostrazione"
potrebbe mai obbligarmi a fare, così come niente potrebbe obbligarmi ad
accordare le mie parole ai miei atti, allora la pluralità indefinita di
individui che appartengono alla società implica subito la democrazia,
come possibilità effettiva di uguale partecipazione di tutti sia alle
attivita' istituenti sia al potere esplicito (è inutile qui dilungarsi
sulla necessaria implicazione reciproca dell'uguaglianza e della
liberta', una volta pensate rigorosamente le due idee, e sui sofismi
mediante i quali, da molto tempo, si cerca di rendere antitetici questi
due termini). Tuttavia sembra che siamo ritornati al punto di
partenza, poiché il potere fondamentale in una società, il primo potere
da cui dipendono tutti gli altri, quello che sopra ho chiamato
l'infra-potere, è il potere istituente. Se si smette di essere
affascinati dalle costituzioni, si rileva che questo potere non è
localizzabile nè formalizzabile, perché esso appartiene all'immaginario
istituente. La lingua, la famiglia, i costumi, le idee, una quantità
innumerevole di altre cose e la loro evoluzione, sfuggono essenzialmente
alla legislazione. D'altronde, tutti partecipano a questo potere nella
misura in cui esso è partecipabile. Tutti sono autori dell'evoluzione
della lingua, della famiglia, dei costumi, e così via. Qual è stata
dunque la radicalità della creazione della politica dei greci? Essa sta
in questo: e una parte del potere istituente viene esplicitato e
formalizzato (concretamente, sia la parte che concerne la legislazione
in senso proprio, pubblica, costituzionale, e quella privata; sono state
create delle istituzioni per rendere partecipabile la parte esplicita
del potere (compreso il potere politico nel senso definito prima): da
ciò deriva l'uguale partecipazione di tutti i membri del corpo politico
alla determinazione del nomos, della diké e del telos,
cioè della legislazione, della giurisdizione, del governo (non esiste,
rigorosamente parlando, il potere esecutivo: esso era a carico degli
schiavi ad Atene ed è oggi realizzato da uomini che agiscono come degli
animali dotati di voce, nell'attesa di essere realizzato dalle
macchine).
Ora, da quando la questione è stata posta in questi
termini, la politica ha inghiottito, almeno di diritto, il politico nel
senso descritto precedentemente. La struttura e l'esercizio del potere
esplicito sono divenuti di principio e di fatto, ad Atene e
nell'occidente europeo, oggetto di deliberazione e di decisione
collettiva (della collettività ogni volta auto-posta e, di fatto e di
diritto, sempre necessariamente auto-posta). Ma la cosa più importante è
che la totale messa in discussione dell'istituzione è divenuta
potenzialmente radicale e illimitata. Lo sconvolgimento della
ripartizione tradizionale delle tribù ateniesi operato da Clistene è
forse storia antica. Resta il fatto che noi riteniamo di vivere in una
repubblica: è dunque necessaria un'educazione repubblicana. Ma dove
comincia e dove finisce l'educazione, repubblicana o meno?
I
movimenti moderni di emancipazione (soprattutto quello operaio, ma anche
il movimento delle donne) hanno posto la questione: può esserci
democrazia, può esserci uguale possibilità effettiva per tutti coloro
che vogliono partecipare al potere, in una societa' in cui esiste, e si
ricostituisce costantemente, una formidabile inuguaglianza di potere
economico, immediatamente traducibile in potere politico? In una società
che, sebbene abbia accordato qualche decennio fa i diritti politici
alle donne, continua di fatto a trattarle come dei cittadini passivi? Le
leggi della proprietà (privata o di stato) sono cadute dal cielo? In
quale Sinai le si è raccolte?
La politica è progetto di autonomia,
attività ponderata e lucida mirante all'istituzione globale della
società. In altri termini, essa concerne tutto ciò che nella società è
partecipabile e condivisibile. Ora, questa attività autoistituente
sembra non conoscere e non riconoscere, de jure, alcun limite
(non parlo ovviamente delle leggi naturali e biologiche). Possiamo e
dobbiamo fermarci a questo? La risposta è negativa sia ontologicamente a
monte della questione quid juris sia politicamente (cioè a valle).
Il
punto di vista ontologico conduce alle riflessioni più complesse, ma
poco rilevanti rispetto alla questione politica. In tutti i modi
l'auto-istituzione esplicita della società incontrerà sempre i limiti di
cui abbiamo parlato precedentemente. Qualunque istituzione, anche
lucida, ponderata, voluta, scaturisce dall'immaginario istituente, che
non è nè formalizzabile né localizzabile. Qualunque istituzione (persino
la più radicale rivoluzione che si possa concepire) è sempre interna a
una storia già data, e se anche si avesse il folle progetto di fare
tabula rasa di tutto, sarebbe ancora con gli stessi oggetti della tabula
che si cercherebbe di farlo. Il presente trasforma sempre il passato in
passato prossimo, cioè come rilevante adesso, anche se lo reinterpreta a
partire da ciò che si è in procinto di creare, pensare, porre, è sempre
quel passato, e non un altro, né un passato qualunque, che il presente
modella secondo il proprio immaginario. Ogni società deve proiettarsi in
un a-venire che è essenzialmente incertezza e rischio. Ogni società
dovrà socializzare la psiche degli esseri che la compongono; e la natura
di questa psiche imporrà delle costrizioni, tanto incerte quanto
decisive, ai modi e al contenuto di questa socializzazione.
Considerazioni
con molteplici implicazioni, ma senza rilevanza politica. Esse sono
profondamente analoghe, e non incidentalmente, a quelle che nella mia
vita personale mostrano come io mi faccia in una storia che mi ha sempre
fatto, come i miei progetti più maturi possono essere istantaneamente
distrutti da possibili eventi futuri, come, in quanto vivente, io resti
sempre per me stesso una delle sorgenti più potenti di stupore e un
enigma che non ha eguali (perché visto dall'interno), e come io possa
convivere con la mia immaginazione, i miei affetti, i miei desideri, ma
non posso, anzi non devo, dominare. Devo dominare i miei atti e le mie
parole, che è tutt'altra cosa. E anche se queste considerazioni non mi
dicono niente di sostanziale su quello che devo fare (poiché posso fare
tutto quello che posso, ma non devo fare qualunque cosa, e per quanto
riguarda quello che devo fare la struttura ontologica della mia
temporalità personale, per esempio, non mi è di alcun aiuto). Così i
limiti, sia certi che indefinibili, posti dalla natura stessa del
socio-storico alla possibilità per una società di stabilire un altro
rapporto tra istituente e istituito, non dicono niente su come dobbiamo
volere l'istituzione effettiva della società in cui viviamo. Per
esempio, dal fatto che "i vivi vivono dei morti", ricordato da
Marx, non posso trarre alcuna politica. I vivi non sarebbero più tali se
non vivessero, ma non lo sarebbero neanche se vivessero totalmente ed
esclusivamente dei morti. Cosa posso concludere sul rapporto che una
società deve voler stabilire, per quanto dipenda da lei, con il suo
passato? Non posso nemmeno dire che una politica che volesse ignorare o
esiliare i morti, cioé il passato, in quanto contrario alla natura delle
cose, sarebbe "votata al fallimento" oppure "folle":
essa sarebbe nella totale illusione rispetto al suo obiettivo
proclamato, ma non sarebbe comunque inesistente o non avvenuta. Essere
folli non impedisce di esistere: il totalitarismo è esistito, esiste,
sotto i nostri occhi, tenta sempre di riformare il passato in funzione
del presente (ricordiamo incidentalmente che esso ha fatto,
sistematicamente e violentemente ciò che, in un altro modo, qualsiasi
persona fa dal momento che respira e ciò che fanno tutti i giorni i
giornali, i libri di storia e anche i filosofi). E ancora, dire che il
totalitarismo non sarebbe potuto riuscire perché contrario alla natura
delle cose (che è come dire: "alla natura umana") significa
ancora confondere i livelli, e porre come necessità di essenza ciò che è
un puro fatto. Adolf Hitler è stato sconfitto, il comunismo non riesce a
dominare il pianeta. Questo è tutto. Sì tratta di puri fatti e le
parziali spiegazioni che se ne possono dare sono anch'esse dell'ordine
dei puri fatti, non svelano nessuna necessità trascendente, nessun "senso della storia".
E diverso se si adotta un punto di vista politico, a valle
dell'ammissione di non saper definire i limiti essenziali, non banali,
dell'auto-istituzione esplicita della società. Se la società è progetto
di autonomia individuale e sociale (due facce della stessa medaglia), ne
derivano delle conseguenze sostanziali. Certo il progetto di autonomia
deve essere posto (accettato, postulato). L'idea di autonomia non può
essere nè fondata nè dimostrata, perché qualsiasi fondazione o
dimostrazione la presuppone (non si dà alcuna fondazione della
riflessività senza il presupposto della riflessivitaà stessa). Una volta
posta, essa può essere ragionevolmente argomentata a partire dalle sue
implicazioni e dalle sue conseguenze. Ma essa può e deve, anche e
soprattutto, essere esplicitata. Ne derivano allora delle conseguenze
sostanziali, che danno un parziale contenuto a una politica
dell'autonomia, ma che le impongono anche delle limitazioni. In effetti,
in questa prospettiva, viene richiesto di aprire il più possibile la
strada alla manifestazione dell'istituente, ma altrettanto d'introdurre
il massimo possibile di riflessività nell'attività istituente esplicita e
nell'esercizio del potere esplicito. Non bisogna dimenticare, infatti,
che l'istituente come tale e le sue opere non sono né "buoni" né "cattivi",
o piuttosto che essi possono essere, dal punto di vista della
riflessività, o l'uno o l'altro al punto più estremo (come
l'immaginazione dell'essere umano singolare). Diventa allora imperativo
formare delle istituzioni che rendano questa riflessività collettiva
effettivamente possibile e che la stipulino concretamente (le
conseguenze di questo sono innumerevoli), e che diano anche a tutti gli
individui la massima possibilità effettiva di partecipare al potere
esplicito e la sfera più estesa possibile di vita individuale autonoma.
Se ci si rammenta che l'istituzione della società esiste soltanto in
quanto incorporata negli individui sociali, si potrà allora
evidentemente giustificare (o se si vuole, fondare) a partire dal
progetto di autonomia i "diritti dell'uomo"; soprattutto si
potrà comprendere, abbandonando le superficialità della filosofia
politica contemporanea e ricordando Aristotele (la legge tende alla
«creazione della virtù totale» mediante le sue prescrizioni peri paideia
ten pros to koinon relative alla paideia orientata verso la
cosa pubblica) che la paideia, l'educazione che va dalla nascita alla
morte, è una dimensione centrale di qualunque politica di autonomia, e
si potrà riformulare, correggendolo, il problema di Rousseau: "Trovare
una forma di associazione che difenda e protegga con la forza comune la
persona e i beni di ogni associato, e attraverso la quale ognuno,
sebbene unito agli altri, non obbedisca che a se stesso, restando libero
come prima". E' inutile commentare la formula di Rousseau e la sua
pesante dipendenza nei confronti di una metafisica
dell'individuo-sostanza e delle sue proprietà. Ma ecco la vera
formulazione: Creare le istituzioni che, interiorizzate dagli individui,
ne facilitino il più possibile l'accesso all'autonomia individuale e la
possibilità di partecipare effettivamente a ogni potere esplicito
esistente nella società. Questa formulazione sembrerà paradossale solo a
coloro che sostengono la libertà - folgorazione, di un per-sè fittizio
slegato da tutto, anche dalla propria storia. Risulta anche, ed è una
tautologia, che l'autonomia è ipso facto autolimitazione. Qualsiasi
limitazione della democrazia non può essere qualcosa di piu' o di
diverso dalla semplice esortazione, se essa s'incarna nella creazione di
individui liberi e responsabili. Non c'è alcuna garanzia per la
democrazia, se non relativa e contingente. Là meno contingente di tutte
si trova nella paideia dei cittadini, nella formazione, sempre
sociale, di individui che abbiano interiorizzato contemporaneamente la
necessità della legge e la possibilità di metterla in discussione,
l'interrogazione, la riflessività e la capacità di deliberare, la
libertà e la responsabilità. L'autonomia è dunque il progetto (e ora
siamo sia sul piano ontologico che su quello politico) che mira, in
senso lato, a che il potere istituente venga alla luce e alla sua
esplicitazione riflessiva (che possono essere sempre solo parziali) e
che mira, in senso più stretto, al riassorbimento del politico, in
quanto potere esplicito, nella politica, attività consapevole e
deliberata che ha come oggetto l'istituzione esplicita della società
(dunque anche ogni potere esplicito) e la sua azione come nomos, dike, telos
(legislazione, giurisdizione, governo) in vista dei fini comuni e delle
opere pubbliche che la società si è deliberatamente proposta.
Traduzione di Cecilia Gallotti
Tratto da Volontà n°4/1984
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