Il
Trattato di Rapallo, finalmente suggellato il 12 Novembre 1920,
risolveva la questione adriatica con un vile compromesso che
accontentava i maggiorenti delle borghesie italiana e jugoslava e poneva
sostanzialmente termine alla clamorosa avventura fiumana.
Di primo
acchito e in un momento di profondo sconforto e di dolente incertezza,
D'Annunzio dichiarò di preferire la morte alla resa. Fedele al motto che
aveva coniato per i suoi baldi legionari - Mori citius quam deserere - per qualche settimana egli si cullò nella visione di una Fine Eroica e Gloriosa."Per Fiume, per le Isole, per la Dalmazia, noi otterremo tutto quello che è giusto", declamò il Comandante il 5 Dicembre 1920, alla notizia dei disordini di Zara. E proseguiva: "Ma,
se questo non potessimo ottenere, se non potessimo superare con un
balzo prodigioso l'iniquità degli uomini e l'avversità delle sorti, io
vi dico sul mio onore che tra l'Italia e Fiume, tra l'Italia e le Isole,
tra l'Italia e la Dalmazia resterà per sempre il mio corpo sanguinante". Tre
settimane dopo, durante i tragici giorni del Natale di Sangue, durante
il bombardamento di Fiume dal mare, una cannonata dell'"Andrea Doria"
poco mancò di realizzare questo orrendo ed infame proposito, risolvendo
d'un tratto ogni controversia e liberando d'ogni molestia il Governo del
Re e della Borghesia con l'eliminazione del più impavido ed eroico
individuo generato nel Secolo Diciannovesimo tra le italiche genti.
"Per loro sfortuna - disse in quel frangente D'Annunzio rivolto ai potenti d'Italia - la testa di ferro è stata soltanto incisa". Ma l'amaritudine in quegli istanti lo dominava: "Non
vale la pena di gettare la propria vita in servigio di un popolo che
non si cura di distogliere neppure per un attimo dalle gozzoviglie
natalizie la sua lorda ingordigia, mentre il suo degno Governo fa
assassinare con fredda determinazione una gente di sublimi virtù come la
fiumana".
Ma all'ultimo, retoricamente D'Annunzio si
domandava, facendo vibrare qualche corda nei cuori non del tutto
induriti dal volgare cinismo della politica giolittiana: "Ci sono di là dall'Adriatico italiani che, incapaci di sollevarsi e di compiere infine giustizia, sentano almeno la vergogna?"
C'erano, questi italiani. E non erano tutti legionari. Anche
tra gli anarchici di tendenza individualista molti avevano continuato a
sperare che la miccia di Fiume non si sarebbe spenta.
Nel Giugno 1920 Randolfo Vella, corrispondente di "Umanità Nova",
aveva visitato la Reggenza del Carnaro, compiendo quella celeberrima e
fragorosa intervista al Vate nel quale costui aveva pronunciato il suo
famoso auspicio per l'instaurazione del "comunismo senza dittatura"
e pubblicando un resoconto di intonazione favorevole sulle cose che
aveva veduto e le accoglienze che aveva ricevute. Nella succitata
intervista stampata da "Umanità Nova" il 9 Giugno 1920, all'ingenuo malatestiano Vella che gli aveva chiesto, stupito: "Lei è per il comunismo?", D'Annunzio aveva replicato impassibile e senza scomporsi, con aristocratico distacco: "Nessuna meraviglia, poichè tutta la mia cultura è anarchica,
e poichè è radicata in me la convinzione che, dopo quest'ultima guerra,
la storia scioglierà un novello volo verso un audacissimo lido. E'
mia intenzione di fare di questa città un'isola spirituale dalla quale
possa irradiare un'azione eminentemente comunista verso tutte le nazioni
oppresse. Io ho bisogno di non essere calunniato da voi sovversivi; poi vedrete che la mia opera non è nazionalista".
Con
la consueta supponenza arrogante e settaria, l'organo che sarebbe poi
diventato l'attuale bollettino rivoltante e nauseabondo della F.A.I.,
per mezzo di una nota redazionale chiosava, quello stesso giorno e a
commento dell'intervista, che sarebbe stato meglio se D'Annunzio fosse
andato "a far dei versi". Notazione ineccepibile, sempre che
coloro che l'avessero fatta fossero stati poi in grado di fare quella
Rivoluzione di cui si accusava il Poeta di essere incapace di attuare,
perso nelle sue "fisime medievali". Ma in ogni momento, e quindi
anche in quello, i malatestiani dimostrarono di non smentirsi mai; e in
un certo qual modo, la coerenza della loro costante miopia va pertanto
riconosciuta.
Frattanto, quegli italiani che sentirono la vergogna del bombardamento di Fiume e che cercarono di "sollevarsi e compiere infine giustizia", così come aveva invocato il Comandante, si fecero vivi in quel di Milano, dove la sorveglianza esercitata nei confronti dei sovversivi era svolta con modalità oltremodo ossessionanti. Così il 28 Dicembre 1920,
informato del fatto che la sera prima una decina di persone aveva
tenuto un misterioso e carbonaro convegno dietro le scuole dei bastioni
di Porta Volta, il questore preparò un'imboscata che, col favore di una
nebbia fittissima, riuscì alla perfezione. Il quotidiano radicale di
Milano "Il Secolo" nel suo numero del 31 Dicembre 1920 in questa guisa ricostruiva la vicenda: "Gli
agenti si appostarono dietro le piante, circondarono la scuola,
vigilarono senza essere visti tutti gli accessi. Mano mano che delle
persone spuntavano agli ingressi della trappola tesa, venivano
acciuffate. Un camion era pronto, a una certa distanza, a raccogliere
gli arrestati. L'operazione di sorpresa riuscì benissimo, in silenzio,
animandosi soltanto allorchè comparve l'anarchico Annunzio Filippi,
fratello di quel Bruno Filippi che morì sfracellato dalla bomba da lui
deposta dentro un ammezzato della Galleria Vittorio Emanuele. Avendo il
Filippi scorto gli agenti nell'ombra, si diede alla fuga. Per riuscire
meglio estrasse una rivoltella carica, come fu visto poi, di sette
colpi. Il Filippi riuscì a percorrere un breve tratto di corsa; ma
vedendo che da ogni albero sbucavano guardie pronte a sbarrargli il
passo si fermò, abbassando l'arma. Fu preso. Nelle tasche aveva una
scatola di zinco contenente materie esplosive. L'arrestato possedeva
anche otto detonatori".
La retata terminò verso la
mezzanotte. Il bilancio fu di trenta arrestati. Solo uno dei presenti,
oltre ad Annunzio Filippi, risultò in possesso di un'arma: il legionario
fiumano Cesare Cerati. Delle trenta persone arrestate dodici furono
rilasciate il giorno dopo, avendo potuto provare la propria assoluta
estraneità al convegno. I diciotto trattenuti vennero classificati
politicamente dal vicecommissario Rizzo, che aveva diretto l'operazione o
meglio la spedizione punitiva, in quattro gruppi: anarchici, arditi di
guerra, legionari fiumani, sindacalisti dannunziani.
A parte Cerati,
che aveva passato la trentina, erano tutti molto giovani: il più
anziano aveva ventiquattro anni, il più giovane diciassette. Tra essi,
oltre a Filippi e Cerati, c'erano gli anarchici Aurelio Tromba, fornaio,
Ettore Aguggini, meccanico, Antonio Pietropaolo, studente.
A piede
libero, per complicità, venne denunciato il capitano Mario Carli,
scrittore futurista, volontario tra gli Arditi durante la Grande Guerra,
da poco lasciatosi alle spalle la Repubblica dei Sindacati di Fiume e
trasferitosi a Milano dove dirigeva il periodico dannunziano fondato
proprio a Fiume nel corso del 1920 dal titolo "La Testa di Ferro",
e i cui legami con anarchici individualisti come Renzo Novatore e Auro
D'Arcola alias Tintino Persio Rasi erano profondi e notori; sulle
colonne del suo giornale si era svolto un interessante dibattito sul
tema delle relazioni tra futurismo ed anarchismo, a cui aveva
partecipato anche Carlo Molaschi, seppure in posizione critica, già sul
crinale di essere infettato dalla cancrena malatestiana-organizzatrice.
Il periodico di Mario Carli si era pericolosamente esposto in quei
giorni con una feroce campagna contro il Trattato di Rapallo, esortando
gli italiani ad imporre con qualsiasi mezzo allo schifoso governo di
riconoscere la Reggenza del Carnaro ed invitandoli a sbarazzarsi in un
sol colpo della monarchia, del sistema parlamentare e del papato, che
con il loro penetrante fetore ammorbavano l'italo suol dove, come diceva
l'Alighieri, "dolce risuona il Sì".
Secondo le dichiarazioni rese alla stampa, la
questura aveva accertato che lo scopo della riunione era di organizzare
un attentato contro le centrali elettriche di Via Gadio e di Viale
Elvezia: piombato nel buio il capoluogo lombardo, altri
attentati sarebbero seguiti, secondo un preciso piano
insurrezionalistico. La trama fu giudicata da molti organi borghesi come
sterile e puerile, "Il Popolo d'Italia", ad ogni buon conto, si
affrettò a denunciare questi accordi - tra anarchici e dannunziani - che
non possono avere alcun valore politico"; se infatti una salda alleanza
si fosse concretata tra queste componenti sovversive, tristi giorni si
sarebbero profilati per i mondani e reazionari piani fascisti.
Sull'organo dei Fasci si leggeva il 4 Gennaio 1921: "Non si concilia
la teoria della diserzione coll'adempimento del dovere di Patria; non si
mettono nello stesso seguito la Nazione e l'antinazione. Non si fanno
certe unioni contro-natura". Il moralistico ed utilitaristico
messaggio contenuto in queste parole richiama senza dubbio alla mente
espressioni analoghe che nel campo dell'Anarchismo Ufficiale venivano
sentenziate dai capoccia a giustificazione della propria perversa
ignavia e della propria sciocca pedanteria settaria e legalitaria,
allora come oggi, da sempre.
Gli individualisti, dal canto loro, non rinunciarono alle distinzioni: "Per la storia, ci teniamo a far rilevare un fatto: i dannunziani non vanno confusi con i fascisti poichè un abisso li divide".
Il
5 Gennaio 1921 il questore, secondo una prassi divenuta ormai abituale,
chiedeva al procuratore del re sei giorni di proroga per le indagini.
Scaduti i sei giorni della proroga, la pratica passava al giudice
istruttore. Tranne Cerati, Tromba e Filippi, tutti gli arrestati
venivano rimessi in libertà. L'intero caso si sgonfiava e le cose
prendevano una piega diversa, fermo restando l'insolita intesa creatasi
che ricordava alcuni complotti anarrepubblicani che avevano avuto luogo a
Roma nel 1919. Dei tre inquisiti non si parlò più fino all'estate,
quando fu celebrato il processo.
Il 21 Luglio 1921 i tre imputati
comparvero davanti alla Corte d'Assise di Milano dopo quasi sette mesi
di carcere preventivo, insieme a Mario Carli e ad un altro futurista,
imputati a piede libero, di complotto contro la sicurezza dello Stato.
Essi avevano, secondo l'atto d'accusa ripreso da "Il Secolo" del 21 Luglio medesimo, "concertato
e stabilito di commettere il fatto diretto a far sorgere in armi gli
abitanti del Regno contro i poteri dello Stato, incitando con la stampa
la cittadinanza a prendere le armi contro i detti poteri per la
questione di Fiume, radunando persone a convegno a Milano le sere del 27
e 28 Dicembre 1920, munendosi di armi da fuoco e di un ordigno
esplosivo e stampando un supplemento straordinario del periodico "La
Testa di Ferro", con un vibrato appello alla sommossa a mano armata".
Il
dibattimento ridusse il complotto alle giuste proporzioni. Cerati disse
che lo scopo della riunione era quello di preparare delle dimostrazioni
per indurre il governo a togliere il blocco di Fiume. Annunzio Filippi,
la cui rivoltella era pure guasta, dichiarò di non sapere che la
scatola era una bomba e che gliela aveva affidata uno sconosciuto e che
non gli sarebbe stato difficile liberarsene prima della cattura. Tromba,
che l'anno prima era stato assolto in istruttoria dall'accusa di
complicità nell'attentato compiuto da Bruno Filippi al Caffè Biffi,
asserì di essere stato arrestato mentre curiosava in Piazza Lega
Lombarda. Carli, il più lucido e puntuale di tutti nel corso del
processo, spiegò che in quelle settimane il suo giornale si era proposto
di "riunire tutti i partiti rivoluzionari per purificare l'Italia e liberarla dal giogo della democrazia, Antitesi dell'Eroico".
Filippo Tommaso Marinetti e Alceste De Ambris, citati come testimoni,
giustificarono infiammati e virili come sempre i propositi degli
imputati. Il secondo tentò di leggere un messaggio di solidarietà agli
imputati vergato da D'Annunzio, ma il Pubblico Ministero si oppose e il
Presidente della Corte glielo impedì. Scritta a Gardone Riviera il 20
Luglio 1921, la lettera del Comandante ricordava come, mentre a Fiume
ferveva una battaglia disperata, "l'eroismo solitario di Pochi" si fosse alzato "contro la sommessione di tutto il pavido regno". Egli così seguitava: "Tra
quei pochi erano questi giovani legionari che, lontani dalla battaglia,
non potendo accorrere, tentarono di riscuotere intorno a loro il popolo
ingannato ed addormentato, cercarono di gridare la verità sanguinosa
contro la congiura del silenzio. Questi accusati, soli contro
l'incuranza di tutti, soli contro l'insensibilità di tutti, soli con il
loro dolore e il loro furore, vollero gettare il loro grido, vollero
testimoniare la loro devozione a quei fratelli che laggiù cadevano
sorridendo verso le stelle annunziatrici del Figliuol d'uomo. Cadendo,
morendo, erano essi i più forti. E questi giovani, che non hanno altra
colpa se non di avere passato il limite in generoso delirio, questi
giovani che per la Causa Santa e Bella hanno sofferto senza un lamento
la prigionia e l'oppressione, oggi sono anch'essi i più forti".
D'Annunzio non aveva torto a sperare nella clemenza dei "buoni giudici",
che infatti assolsero tutti gli imputati dal reato più grave, la
congiura. Cerati subì una lieve condanna per porto abusivo di
rivoltella. Ma Annunzio Filippi, degno epigono del compianto congiunto,
pagò per tutti buscandosi due anni di reclusione e uno di vigilanza
speciale per la bomba.
Il complotto anarchico-fiumano di dicembre
non fu però esclusivamente una montatura. Esso dava il polso di una
situazione che da potenzialmente rivoluzionaria si stava normalizzando,
ma nella quale gli elementi rivoluzionari non disposti ad accettare
passivamente questo indirizzo si muovevano disperatamente in tutte le
direzioni, allo scopo di mettere in crisi il sistema autoritario e
repressivo del carcerario capitalismo italiano. E per fermare i
pescecani della borghesia e del fascismo, talvolta le autentiche forze
rivoluzionarie, come i futuristi, i dannunziani, gli anarchici
individualisti delle più svariate tendenze, accantonavano le divergenze
ideologiche e si univano stirnerianamente, al fine di agire.
Rimane
la testimonianza di una fede e di un sacrificio, la cui memoria deve
essere di sprone anche per un oggi, cupo e brumoso come esso ci appare,
immancabilmente, e nel quale ci è toccata la malasorte di vivere. |
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